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Gli ultimi messaggi del Forum

L'anima della frontiera - Matteo Righetto

Di Matteo Righetto fino a ora avevo letto solo La stanza delle mele, un romanzo in due parti, di cui la prima interessante, con la seconda però decisamente non riuscita. E’ stato anche per questo che ho voluto conoscere almeno un’altra opera dell’autore e ho scelto L’anima della frontiera, il primo di una trilogia. Purtroppo non sono rimasto soddisfatto, perché non ho capito se questo western alpino sia stato scritto per i ragazzi – ma allora avrebbe alcuni aspetti della trama del tutto inidonei per quell’età -, oppure per gli adulti – e in tal caso presenta non poche ingenuità. La vicenda di questa ragazza che si sostituisce al padre in un’attività di contrabbando del tabacco sta proprio poco in piedi perché le si attribuisce una maturità che per la giovane età non dovrebbe avere e anche un’astuzia non indifferente, salvo poi scivolare sulla cosiddetta buccia di banana. Anche il fatto che il genitore non sia tornato da una sua spedizione annuale e, mancando da tre anni da casa si presume sia morto, potrebbe essere convincente se poi invece il l’uomo non ricomparisse per miracolo a salvare la figlia da un tentativo di violenza. L’assenza è giustificata nel romanzo con i postumi di un ferimento e la convalescenza trascorsa nella casa di un buon samaritano, una soluzione che è ben poco convincente, perché si comprende che non avrebbe potuto dare notizie di sé alla sua famiglia se fosse stato nella foresta amazzonica, ma non a pochi chilometri da casa. Del resto tutta la trama è incongruente e perfino i tentativi di descrivere la natura attraversata, con i boschi e le montagne, mancano di spontaneità, sembrano quadri messi lì perché proprio non se ne poteva fare a meno.

Per concludere non credo proprio che passerò alla lettura degli altri due romanzi della trilogia, perché uno mi è bastato e l’ho letto fino in fondo nella vana speranza che potesse riscattarsi, cercando inutilmente qualcosa che potesse mitigare il mio giudizio negativo.

Verde Eldorado - Adrián N. Bravi

In contrapposizione a un’epoca come la nostra in cui continuano i flussi migratori dalle terre misere dell’Africa, in passato c’è stata una migrazione al contrario, dalla più evoluta Europa alla selvaggia America del Sud; nel primo caso c’è un’umanità derelitta che è alla ricerca di una dignità di vita, mentre nel secondo erano uomini di mare abbagliati dal miraggio dell’oro. E’ di alcuni di questi navigatori che parla Verde Eldorado, riuscito romanzo di Adrian Bravi, narratore argentino che risiede in Italia e che da tempo ha scelto di scrivere in italiano. Si narra la storia di Ugolino, ragazzo veneziano rimasto orrendamente ustionato nell’incendio della sua casa, tanto che gira con un cappuccio che cela alla vista degli altri il suo volto devastato dalle fiamme, e che, incoraggiato dal padre, amico di Sebastiano Caboto, e che vede così una soluzione del problema di un figlio ormai diventato un peso per la famiglia, prende parte alla spedizione del navigatore veneziano per cercare un passaggio più breve per arrivare alle Molucche, terra di spezie. La trama è quanto di più intrigante si possa trovare al giorno d’oggi, un’avventura che potrebbe richiamare quelle frutto della fantasia di Salgari, ma il cui intento è ben diverso. Ci si può stupire per la bellezza dei paesaggi descritti, per la capacità di trasmettere sensazioni, per l’abilità di emozionare con fatti apparentemente normali, ma non si può sorvolare sull’incontro di due civiltà, ognuna con i suoi pregi e con i suoi difetti, con due mondi che vengono a contatto e che evidenziano il diverso senso da dare alla vita. Infatti per gli indios del Rio de la Plata sono determinanti il rispetto per la natura e l’immersione nella stessa, mentre sono la brama della ricchezza e la materialità che ossessionano i navigatori europei, aspetti antitetici di un viaggio di cui Caboto cambia la destinazione per tentare di arrivare a un mitico Eldorado, per cercare l’irraggiungibile, e il giovane Ugolino ne uscirà trasformato. Catturato con alcuni suoi compagni dagli Indios, dovrà assistere alla loro uccisione, dovrà vedere con orrore le loro carni diventare cibo per questi antropofagi. Lui si salverà perché diverso per il suo viso sfigurato dal fuoco e dall’incontro con i selvaggi cambierà la vita e il destino del giovane veneziano; poco a poco si avvicinerà a questi indios, ne assorbirà le usanze, i suoni e gli odori, cedendo loro in cambio un po’ della sua civiltà. Diventerà l’uomo dei due mondi che cercherà in ogni modo di conciliare, in un’ottica di reciproca integrazione. Alla Città dell’oro non arriverà mai e così anche Caboto, ma l’Eldorado non è lì, è in quel villaggio dove è nata una nuova civiltà.
Verde Eldorado è indubbiamente un romanzo ambizioso, ma riesce a raggiungere in buona parte i suoi scopi; il lettore deve solo stare attento a non lasciarsi trascinare dalla trama avventurosa, a cui può pur tuttavia lasciarsi andare, ma con giudizio; infatti è opportuno fermarsi ogni tanto per riflettere sulla grandiosa opportunità di un mondo nuovo che ci offrono Ugolino e il suo creatore Adrian Bravi.

Atlante di un uomo irrequieto - Christoph Ransmayr

Mia prima lettura di questo autore. Di questa scrittura ho apprezzato la capacità descrittiva davvero straordinaria dell'autore: partendo da una piccola scena (a volte priva di qualsiasi movimento) con persone o animali, riesce a tratteggiare un quadro d'insieme, a narrare la storia di un luogo, di una persona sconosciuta o di un popolo. Dimenticatevi i luoghi (sovra)affollati della vecchia Europa e dell'Occidente. In questo viaggio lungo 70 racconti, sarete trasportati in luoghi remoti degli altri continenti, perlopiù immersi nella natura e lontani dai circuiti turistici classici. Quelli che mi hanno colpito di più sono state le storie legate a Rapa Nui e all'isola degli ammutinati del Bounty. Un libro tuttavia che ho impiegato parecchio tempo a leggere, forse appunto per la struttura stessa del libro: non c'è infatti nessun legame tra i racconti, sono "quadretti" singoli di questo instancabile viaggiatore che parla di sé soltanto in pochissimi passaggi. Questa lettura, dopotutto, è un invito a mettersi in viaggio e a scoprire la bellezza della vita e del mondo che ci circonda.

Le origini del potere - Alessandra Selmi

Papa Giulio II (Albisola, 5 dicembre 1443 – Roma, 21 febbraio 1513), al secolo Giuliano della Rovere, è anche conosciuto come il Papa guerriero, perché, nel periodo del suo pontificato, che va dal 1503 al 1513, promosse numerose guerre per liberarsi dei vari poteri che prevaricavano la sua autorità temporale, e lo fece con la massima determinazione e con il coraggio propri più di un uomo d’armi che di un religioso al comando della Chiesa.
Però avviso che chi si dispone a leggere questo romanzo storico che riguarda appunto Giulio II potrebbe non dico restare deluso, ma arrivato alla fine potrebbe chiedersi notizie sul suo pontificato, perché in queste 384 pagine si parla solo del prima, cioè del periodo che va dal 1471, anno in cui fu eletto al trono di Pietro con il nome di Sisto IV lo zio Francesco della Rovere. E’ pertanto molto indovinato il titolo dell’opera, perché le origini del potere sono quelle degli anni in cui Giuliano della Rovere brigò per diventare il capo della Chiesa. Per quanto si tratti di un romanzo storico l’autrice si è attenuta sempre a fatti veritieri, eventi che sono la testimonianza di un mondo in cui la spiritualità era decisamente messa da parte e nella lotta che vediamo, aspra, con delitti anche, fra Giuliano della Rovere e Rodrigo Borgia c’è tutto un periodo storico che ha caratterizzato l’Italia nella seconda metà del XV secolo, con sullo sfondo altre figure che non sono proprio comparse, come Lorenzo de’ Medici e gli Sforza, in un grande e riuscito affresco che nobilita un lavoro ben strutturato, che non ha mai un momento di cedimento e che avvince dall’inizio alla fine. Fra l’altro c’è tutto ciò che può piacere al lettore, dalla figura carismatica del fraticello Giuliano che arriva a Roma a piedi per assistere all’incoronazione dello zio, che subito mette in pratica il nepotismo nominandolo cardinale insieme ai cugini Pietro e Girolamo Riario, alla sua lunga storia d’amore con Lucrezia Normanni, da cui avrà una figlia, un amore per niente platonico, ma molto carnale. E poi c’è la descrizione della Roma dell’epoca, della guerra fra le famiglie Orsini e Colonna, della miseria diffusa fra i suoi abitanti, dalla morte che, sotto forma di pestilenza, livella tutti. Non manca anche un’analisi psicologica approfondita, a cui non sfugge nessuno dei principali protagonisti, insomma Le origini del potere è un’opera senz’altro riuscita e ci si augura che sia la prima parte, visto che il sottotitolo è La saga di Giulio II, il papa guerriero, e considerato che che appunto il libro finisce con la notizia che quella mattina nel conclave, al primo scrutinio, viene eletto pontefice Giuliano della Rovere, che poi scelse di chiamarsi Giulio II. Era stata una lunga attesa, piena di intrighi, con altri papi prima di lui, ma alla fine tanto aveva brigato che c’era riuscito. Come ogni buona saga sarebbe logico un seguito con un libro sul suo pontificato, che durò dal 1503 al 1513. Tuttavia, non posso esimermi dall’evidenziare la particolare bellezza delle ultime pagine, allorché a fronte del tradimento di un suo compaesano che aveva avviato alla carriera religiosa, pronto a punirlo nel modo più atroce, Giuliano, sentite le motivazioni che tanto gli ricordavano i patimenti e gli affronti subiti da lui stesso in convento, ha un crollo momentaneo, lui che è sempre inflessibile scopre di possedere anche il senso di colpa, tanto da indurlo piangendo a chiedere perdono, graziando altresì quella vittima che era pronta a espiare la sua colpa.
Da leggere, lo merita.

Sotto la sua mano - Piero Chiara

Anni fa c’era una pubblicità in televisione di un noto amaro definito come il rimedio contro il logorio della vita moderna. Se a questo logorio aggiungiamo attualmente i drammi della guerra in Ucraina e in Siria, quelli del terremoto che ha colpito soprattutto la Turchia e quello dei naufragi in cui incappa gente disperata, una persona normale non si può dimostrare insensibile, ma ci sono evidenti contraccolpi sulla sua psiche. Non è più sufficiente la magica bevanda, ma per avere un minimo di tranquillità occorre estraniarsi e il modo migliore è di leggere un libro che non ponga ulteriori problemi, ma che costituisca un sano svago pur senza che riporti delle totali banalità. Per questo abbiamo un autore, purtroppo già scomparso, che è senz’altro uno dei migliori narratori che ci sia stato nel nostro paese e mi riferisco a Piero Chiara, il cantore delle piccole realtà e anche l’uomo che con la sua innata ironia, nel prendere in giro i comportamenti umani, finisce con l’accettare se stesso, riservando analogo trattamento a chi legge le sue opere.
Prendiamo questi tre racconti, riuniti in un unico volume a cui è stato dato come titolo quello del primo, Sotto la Sua mano. Sono pochi, certamente, ma oltre a essere abbastanza lunghi sono anche vari. L’inventiva dello scrittore è dimostrata ampiamente, cosa di cui non dubitavo, ma in uno dei tre arriva a superarsi e mi riferisco proprio al primo, quello del titolo. Come noto ad Arona c’è il santuario eretto in onore di San Carlo Borromeo, con la sua gigantesca statua, da tutti chiamata il Sancarlone, meta di continui pellegrinaggi, complice anche il panorama che si può godere salendo dall’interno fino in cima, alla testa. Ebbene, la creatività di Chiara trasfusa ad ampie mani nel racconto parte da epoca remota, addirittura romana ai tempi dell’imperatore Settimio Severo, allorché il procuratore Tito Cornasidio, appassionato di antichità, compra, pur con i dubbi del caso, i resti del famoso colosso di Rodi, resti costituiti da una certa parte anatomica che per decenza non nomino, ma che con un po’ d’intuito il lettore può indovinare, reperto che, attraverso diverse peripezie, giunge in Italia fino ad arrivare nei pressi di Arona dove per cause di forza maggiore viene abbandonato per essere poi ritrovato secoli dopo e utilizzato nella fusione della statua del Sancarlone, per la precisione per la testa e per le mani. A rendere un po’ più attendibile l’invenzione Chiara parla di una sua visita a un sacerdote suo lontano parente per una ricerca in cui viene casualmente a conoscenza di questo ritrovamento in epoca romana. L’ironia è assicurata, lo stile fresco, giovanile dell’autore coinvolge il lettore che si costringe a credere come vera la vicenda e proprio per questo le risate non mancano. Chi pensa che possa trattarsi di un’offesa alla religione stia tranquillo, perché San Carlo Borromeo non viene toccato nella sua santità, anzi è pure lui vittima di questa sorta di scherzo che è tuttavia una necessità, stante la penuria di bronzo e la necessità di ultimare la statua.
Il secondo racconto si intitola La banca di Monate e già da qui è più che mai logico aspettarsi qualcosa di particolare, perché se è vero che Monate, con il suo lago, esiste, è altrettanto vero che con quel termine sono designate le fesserie, o per restare nello spirito di Chiara, le coglionate. Si tratta di una satira del mondo finanziario, ritratto garbatamente, ma anche con tono deciso; è inoltre rappresentativo dell’Italia nel periodo che si apre con la fine della Grande Guerra e che si chiude con l’avvento del fascismo, in un luogo in cui si sviluppano tante iniziative industriali, accompagnate dal sistema bancario. Sinteticamente è quasi un giallo con una soluzione finale che ahimè anticipa i tempi e rispecchia di come adesso va il mondo.
Terzo e ultimo è Il giocatore Coduri, una descrizione perfetta di questo personaggio, quasi un’istituzione del bar del paese, un personaggio a suo modo misterioso che sembra insostituibile, anche perché perde regolarmente e altrettanto regolarmente paga, tanto che ci si chiede come faccia ad avere così tanto denaro; per il resto è insignificante tanto che quando muore, se ci si attendeva qualche contraccolpo, questo non c’è, perché era una figura che si notava quando era presente, ma la cui assenza si fa presto a dimenticare.
Da leggere.

Flisi fossi - Ernesto Flisi

Si tratta di un nuovo autore, nuovo per me, perché Ernesto Flisi non è al suo esordio con questa raccolta che sostanzialmente raggruppa tre sillogi tematiche (Il pentagramma della vita, Il succedersi del tempo, Caratterizzazioni umane). Se anche gli argomenti trattati sono diversi c’è un legame fra tutti ed è dato da una vena crepuscolare che accompagna le poesie. Non è tristezza, bensì qualcosa di meno gravoso, ma che evidentemente è innato, perché è più esatto parlare di malinconia. E questa nota mi sembra una caratteristica degli autori rivieraschi del Po che fino ad adesso ho esaminato, dai viadanesi Ernesto Flisi e Gabriele Oselini alla sermidese, ormai da tempo extra muros, Daniela Raimondi, e potrei inserirmi anch’io, visto che da più di una quarantina di anni risiedo a Borgo Virgilio. Questa comunanza non mi sembra un caso, perché evidentemente il fiume, il grande Po, anche se ora è ridotto quasi a un rigagnolo, esercita un influsso su chi è radicato sulle sue sponde, tanto è vero che ci unisce un comune amore per la natura e per i ricordi. Sono questi ultimi soprattutto a determinare una vena malinconica, forse per un inconscio rimpianto di ciò che è stato (ovviamente di bello) e che mai più ritornerà. In ordine a questo preambolo non intendo andare oltre perché mi pare giusto approfondire il discorso della poetica di Ernesto Flisi.
Mi sembra un autore dall’animo mite, visti i toni pacati, mai ridondanti e senza che sia incline a una perniciosa retorica. Quasi a voler confermare ciò che dianzi ho esposto il rimpianto è tangibile nei versi come nel caso di Passato (Non torneranno più / i fiori di questa estate. / / I sorrisi negati, / saranno, / irrimediabilmente, / perduti. / Forse resterà / un amaro rimpianto, o, / peggio, / un inconsapevole astio. /…). E’ vero, ci sono stagioni, quelle della vita di ognuno, che non torneranno più e si potrà arrivare a un punto che si rimpiangerà ciò che si avrebbe potuto fare, e non si è fatto, e ci si lamenterà di ciò che si è fatto e non si sarebbe dovuto fare.
Peraltro Flisi scrive dei punti fermi della vita di ogni individuo, come la casa e l’amore, nonché del succedersi del tempo con cui prendiamo coscienza del nostro esistere, grazie a precisi punti di riferimento, che possono essere, per esempio, il Capodanno (All’alba / si ricompone / la gelida notte, / dopo l’amara festa, a celebrar la vita che fugge. /…)., ma soprattutto ai Ricordi (Ricordo un’aia / in un assolato meriggio ( di abbacinante luce / e festosi bimbi / a rimescolar, disteso, / il granturco a seccare. /…). Come si può notare, sono ricordi tipicamente padani e rurali, come l’aia con sopra il mais raccolto e sgranato, di continuo rimescolato affinché si secchi uniformemente. Per quanto ovvio poi ce ne sono altri, ma motivi di tempo e spazio mi impediscono di parlarne, tanto più che mi corre l’obbligo di un’ultima annotazione sulle caratterizzazioni umane, fra le quali mi ha colpito Soffio, con quell’accenno misurato e pacato, ma che costituisce un’inesorabile premessa (Ci passa accanto / come soffio di brezza / la vita / imperscrutabile, / inarrestabile, impalpabile. /…), una poesia che è il paradigma della malinconia, con la consapevolezza della nostra temporaneità che ci costringe a vivere su un palcoscenico in cui siamo precari attori che cercano di comprendere il senso della commedia prima che cali il sipario.
La raccolta mi sembra riuscita, sia per la struttura che rende piacevole la lettura, sia per i contenuti che di certo non mancano, e graziose sono anche le illustrazioni che di tanto in tanto si accompagnano ai versi. Per un’opinione abbastanza esauriente sull’autore invece occorrono altri testi da esaminare, ma ho la sensazione che possano essere dell’ottimo livello di questo.

La giocatrice di scacchi - Bertina Henrichs

"La giocatrice di scacchi" di Bertina Henrichs, edizioni Einaudi.
Una donna quarantenne, con una vita tranquilla, intraprende una passione clandestina per gli scacchi per la quale andrà contro tutti.
Un romanzo lieve e fresco ma non banale, con personaggi curiosi.

Una specie di scintilla - Elle MCNicoll

“Una specie di scintilla”
© Elle McNicoll 2020
Traduzione di Sante Bandirali
Edizione italiana
© @uovoneroedizioni 2021
Pagine 186
Ho incontrato questo libro ad un “Aperitivo letterario” della rete bibliotecaria mantovana e mi ha subito incuriosito la sua presentazione: la protagonista è autistica come anche la scrittrice.
- Addie è una ragazzina di undici anni, autistica ed è consapevole di esserlo. Sa che essere autistici è come essere mancini o daltonici perché è un aspetto della sua vita. È in grado di leggere un libro anche in un solo giorno ed ha un’ottima memoria, ma non è in grado di interpretare i doppi sensi, di distinguere i buoni dai cattivi o di identificare un sentimento. Ama molto leggere libri perché è rilassante. A scuola subisce episodi di bullismo proprio da chi la dovrebbe tutelare, alcuni compagni la deridono quando è in difficoltà. Appena può si rifugia in biblioteca, un ambiente silenzioso, le dà molto fastidio il rumore; Allison il bibliotecario la capisce e le procura i libri che le piacciono: ama gli squali. Ha una famiglia che la capisce e la sostiene negli ostacoli e nelle sue scelte; due sorelle gemelle più grandi con una delle quali, anch’essa autistica, ha un legame forte e l’aiuta nelle difficoltà.
- Il libro è scritto utilizzando un font ad alta leggibilità ed ha il rientro a sinistra, pertanto risulta subito gradevole alla vista. Le frasi sono generalmente brevi, chiare e corrette; riesce a coinvolgere nella lettura e a trasmettere gli stati d’animo di Addie. La protagonista vive la sua diversità con grande determinazione e fiducia in se stessa che le trasmettono le persone vicine. Il finale è scontato ma ci sta.
Consigliato a chi già conosce la tematica ma anche a chi si avvicina per la prima volta all’autismo.

Come vento cucito alla terra - di Ilaria Tuti

“L’amore è sutura./ Sutura e non benda, sutura - non scudo /
(Oh, non chieder difesa!),/ sutura, con cui il vento è cucito alla terra,/ con cui io a te sono cucita.” (Marina Cvetaeva)

I romanzi gialli di Ilaria Tuti con protagonista il commissario Teresa Battaglia non mi hanno convinto, per i motivi che ho spiegato nelle mie recensioni. Invece mi è piaciuto Fiore di roccia, un’opera che dà giustamente risalto alle portatrici carniche della Grande Guerra e in cui, oltre all’abnegazione di chi rischiando la vita portava in trincea munizioni e viveri, sono ben tratteggiate queste figure femminili che, per fame, si sostituiscono agli uomini in un ingrato e pericoloso lavoro.
In Come vento cucito alla terra protagoniste sono ancora le donne, le prime lady doctors; infatti Ilaria Tuti porta alla luce una storia forse dimenticata, vale a dire quella del Women's Hospital Corps (WHC), la prima unità medica fondata da Flora Murray e Louisa Garrett Anderson. Quindi, anche in quest’opera viene posta in risalto la preziosa figura della donna che si rivela di grandissimo aiuto con interventi chirurgici a militari francesi e inglesi feriti nel corso della Grande Guerra. Queste dottoresse, autentiche suffragette, sono esistite veramente, così come non è un’invenzione il Women’s Hospital Corps; invece la trama, ben articolata e anche molto avvincente, è frutto di creatività.
Il libro è quindi una storia di donne, ma è anche una storia di emancipazione, una tappa dell’infinito percorso, ancor lungi dall’esser concluso, per arrivare alla parità fra sessi diversi. Agli inizi del secolo scorso le donne potevano anche studiare da medico e laurearsi pur fra mille difficoltà, ma esisteva il preconcetto che il gentil sesso, per sua natura, incline all’emozione e alla commozione, non fosse adatto a eseguire interventi chirurgici. Il Women’s Hospital Corps dimostrò invece che questi pregiudizi erano del tutto infondati, preconcetti che erano radicati in qualsiasi classe sociale, al punto che agli inizi non pochi feriti si opponevano fermamente all’idea di essere operati da una donna. In questo quadro generale, nell’orrore di una guerra (al riguardo le descrizioni dei campi di battaglia sono veramente notevoli) si innestano due storie che sembrano procedere parallele, ma che progressivamente si avvicinano fino a incontrarsi. I protagonisti di queste due vicende che finiscono per intersecarsi sono Cate, una dottoressa di padre inglese e madre italiana, di famiglia benestante, che però in pratica l’ha rinnegata, nubile con una figlia piccola a carico, e Alexander, capitano di fanteria, proveniente da una famiglia di alto lignaggio, ma di altrettanto alta insensibilità. La prima soccorre Alexander nella terra di nessuno e ricuce con notevole abilità il suo viso sfregiato da un colpo di baionetta; Cate fa delle suture che sono degli autentici ricami, ricami che inizieranno a fare i soldati feriti nella convalescenza al Women’ Hospital, attività dapprima osteggiata, perché ritenuta non virile, ma che darà i suoi frutti allentando le tensioni da guerra, aiutando gli invalidi ad accettare la propria sorte, insomma costituendo uno svago creativo indispensabile per una guarigione soprattutto della mente.
Come vento cucito alla terra è una storia di ribellioni e d’amore, perché ribellione è quella di Cate che reclama la dignità femminile attraverso la parità fra uomo e donna e ribellione è pure quella di Alexander alle convenzioni, alla rigida educazione familiare la cui l’ubbidienza deve essere cieca; ma è anche una storia d’amore fra loro due, una relazione che non avrebbe potuto nascere se non avessero saputo alzare la testa e ritrovare quella libertà innata che solo le regole non scritte di una società rigida possono soffocare.
Non vado oltre, perché mi pare che sia opportuno, oltre che giusto, lasciare ai lettori la scoperta di come procederà e finirà il romanzo.
Si tratta indubbiamente di un’opera eccellente e pertanto la lettura è sicuramente consigliata.

La repubblica di un solo giorno - Ugo Riccarelli

L'esperienza della Repubblica Romana, un fatto determinante nel nostro Risorgimento, è indubbiamente un valido motivo per scriverne, anche se non è materia facile, inquadrato com'è non solo nella nostra lotta per l'indipendenza, ma anche e soprattutto per il tentativo di realizzare uno stato moderno, dotato di una costituzione liberale e democratica. All'epoca, siamo nel 1849, ma il tutto ebbe inizio un po' prima, soprattutto nel 1848 con l'infruttuosa campagna di Carlo Alberto contro l'Austria, c'era un fermento che percorreva tutta l'Europa, un anelito di libertà che portò a vere e proprie sollevazioni popolari contro una restaurazione asfittica, disancorata dalla realtà in cui erano germogliati gli ideali portati dalla rivoluzione francese. A Roma si congiunsero i desideri di un'Italia unita con quelli di una nuova forma istituzionale, ma mentre per il primo già sussistevano i presupposti, per il secondo non era ancora tempo, anzi era eccessivamente prematuro e l'esperimento di questa repubblica, che durò pochissimo, si infranse non solo sotto le bombe dei francesi inviati da Napoleone III a occupare la città per restituirla al pontefice, ma soprattutto su profondi dissidi interni, su concetti vaghi, a quel tempo, difficili da tradurre in pratica, su errori sia sul piano politico che su quello militare. La questione è intricata e assai complessa ed è stata oggetto di numerosi e articolati studi.. Che Ugo Riccarelli, narratore di delicate trame intimistiche, decidesse di scriverne un romanzo storico era lungi da ogni ipotesi, ma fu investito di questo compito al fine che l'opera, in collaborazione con Marco Baliani, potesse essere rappresentata in teatro in occasione del 150° anniversario dell'Unità d'Italia. È comunque d'obbligo precisare che non si tratta di una commedia, ma di un romanzo vero e proprio, in cui l'autore ha privilegiato quali protagonisti dei personaggi di pura fantasia, per quanto emblemi tipici, lasciando sullo sfondo i protagonisti esistiti veramente e di grande notorietà, come Garibaldi e Mazzini; ha inteso invece fornire una rappresentazione dello spirito che animava i cittadini della repubblica in quei giorni caotici, pieni di speranze e di illusioni. Troviamo così Ranieri e Aurelio, giovani venuti dal Nord, seguaci, rispettivamente, di Mazzini e di Garibaldi,e quindi sempre in aperto contrasto con le strategie rivoluzionarie da intraprendere; c'è la bella prostituta Maddalena, che dalle alcove di preti immorali e di nobili reazionari passa all'amore come autentica passione per Ranieri, matura e si riscatta, diventando un'infermiera che assiste i feriti accanto alla principessa Cristina di Belgioioso; c'è infine, il piccolo furfante trasteverino Lucio, che grazie all'incontro con chi predica libertà, democrazia e dignità per ogni essere umano, si redime, diventa un convinto patriota e che per quella repubblica giungerà ad immolarsi.
Finalmente verrà anche scritta la Costituzione, la madre di tutte le costituzioni ottocentesche, dai nobili, elevati principi, ma durerà un solo giorno, perché la repubblica cadrà sotto le cannonate francesi.
Se la lettura è piacevole, perché la narrazione, nonostante il caos che regna sovrano nel territorio cittadino, riesce a staccare in quadri i singoli fatti che vedono protagonisti i personaggi di cui sopra, la fedeltà storica, più che lasciare a desiderare, risente delle caratteristiche dell'autore, poco portato a dare vita a un'opera in cui le masse hanno la loro importanza, più teso a delineare gli ideali dei protagonisti, sovente accompagnando il tutto con una vena romantica che, se non nuoce, mi sembra comunque eccessiva.
Poi, in contrasto con la dinamicità degli eventi, è presente una certa staticità per quanto riguarda le situazioni dei protagonisti che pare poco realistica, ma d'altra parte Riccarellinon poteva tradire la sua vocazione di cercare quello che di buono si annida in ogni animo umano.
Scrittore più di sentimenti misurati che di impeti, più di passioni del cuore che di ideali, ha fatto del suo meglio, confezionando un romanzo dignitoso, che se non può certamente rientrare fra i suoi migliori, è comunque meritevole di essere letto.

Comallamore - Ugo Riccarelli

Comallamore è un romanzo colmo di buone intenzioni, rimaste però per lo più tali. Certo, parlare della pazzia, dei matti, avvicinarli, cercare di entrare nella loro mente è un compito arduo, di notevole difficoltà anche per un esperto psichiatra e Riccarelli non lo era; però, molto opportunamente ha preferito accostarsi a questo argomento non scientificamente, perché gli sarebbe stato impossibile, ma con la forza dell'amore, che sicuramente non gli mancava e con la sua sublimazione, con quella pietà merce tanto rara ai giorni nostri.
La trama è una di quelle che ben si presta a costituire un romanzo avvincente, perché un uomo anziano, a una giornalista che gli chiede dei matti del Pianoro e del partigiano Collamore, racconta in pratica la sua storia, la sua vita di povero sciancato per un incidente giovanile di gioco, la sua impossibilità a proseguire gli studi di laurea in medicina per l'improvvisa morte del padre, il suo conseguente e necessario avviamento al lavoro, trovando un'occupazione presso il manicomio che confina con la sua casa, da cui osservava questi poveri pazzi trascinare stancamente e stranamente le loro esistenze. Beniamino, questo è il nome dell'uomo, diventerà medico sul campo, senza dover ricorrere a conoscenze specifiche, ma amando questi matti, cercando di comprenderli e di alleviare la loro sofferenza come bene gli aveva insegnato il dottor Rattazzi, contrario a una certa medicina ufficiale e in particolare alla pratica dell'elettrochoc.
Siamo negli anni del fascismo che precedono la seconda guerra mondiale, che poi arriverà sconvolgendo quel piccolo mondo e contrapponendo la pazzia dei pazienti con la follia di un conflitto.

Quindi c'erano tutti gli ingredienti per poter scrivere un grande romanzo, ma purtroppo le intenzioni, pur buone, sono rimaste tali, senza i necessari approfondimenti, se non una serie di abbozzi di problematiche. Per esempio, secondo me Riccarelli avrebbe dovuto andare più a fondo sulla pazzia della guerra, e non limitarsi alla ferocia di un ufficiale tedesco, perché qualsiasi conflitto rivela il peggio di ogni essere umano e questo non è necessariamente il fanatico nazista della seconda guerra mondiale. L'antitesi della malattia mentale e di quella bestialità che emerge con la guerra sono argomenti troppo importanti per essere appena accennati. Inoltre, senz'altro influenzato dalle sue condizioni di salute, Riccarelli inonda di tristezza il suo scritto, con una evidente inclinazione a cercare di portare alla commozione, alle lacrime.

Ciò che balza però subito agli occhi è la narrazione, prolissa, tanto da diventare monotona, con ben pochi dialoghi, una narrazione che a volte sembra tipica di un esordiente, con svolazzi poetici e digressioni che spezzano il ritmo pur lento della prosa, finendo con l'affaticare inutilmente il lettore, che, più che restare avvinto, viene frastornato da sentimenti spiegati e rispiegati, non di certo con poche misurate parole.
Posso comprendere che non pochi siano influenzati dalle dolorose vicende dei protagonisti, ma un romanzo, per essere veramente valido, non deve cercare di fare facile presa calcando la mano sui sentimenti, che pure è giusto che ci siano, purché vengano trattati con moderazione.

Insomma, l'impressione che ho ricavato é che Riccarelli, di fronte a una tematica così interessante, abbia impostato non bene la struttura dell'opera, che di certo non posso definire una delle sue più riuscite. In particolare si è molto lontani dall'equilibrio di Un uomo che forse si chiamava Schulz, o di Il dolore perfetto.
Leggere si può leggere e forse qualcuno non avrà da fare le mie osservazioni; comunque resta il fatto che Riccarelli ha perso un'occasione per scrivere qualche cosa di unico e irripetibile.

Un uomo che forse si chiamava Schulz - Ugo Riccarelli

Da Pag. 128 “ Eravamo, invece, pesci alla mattanza e percorrevamo con diligenza i corridoi sempre più stretti della nostra tonnara. La nostra vita fu capovolta e catapultata in un'altra dimensione e lo spazio in cui muovevamo i nostri passi sempre più incerti si ridusse di giorno in giorno, asservito al trionfo dei regolamenti, consumato insieme alle nostre personalità. Non fummo più persone, ma classi, tipologie e numeri diligentemente trascritti sulle carte e i diagrammi, appesi nelle sale della vecchia casa comunale.

Noi, i reietti, fummo passati al setaccio come sabbia grezza da costruzione, vagliati e cerniti per lasciare in un mucchio gli unici mattoni che sarebbero serviti a costruire le gabbie per noi stessi.”

Bruno Schulz, nato a Drohobycz il 12 luglio 1892 ed ivi morto il 19 novembre 1942, fu un pittore e scrittore polacco, di famiglia ebrea. A quanto si sa era un uomo che eccelleva nel dipingere, ma era anche uno straordinario narratore, come testimoniato dal suo libro Le botteghe color cannella, una originale autobiografia trasformata in una fantasiosa leggenda dell'infanzia.

E proprio l'elemento fantastico colpì Italo Calvino, che non poco contribuì a far conoscere questo autore allorché presentando la traduzione italiana nel 1970 ebbe a dire: “Da oggi la letteratura europea del Novecento conta tra i suoi maestri un nome in più". Di certo Ugo Riccarelli fu fra coloro che lessero questo libro e anche lui ne fu colpito profondamente, al punto da scriverne un'autobiografia romanzata, appunto Un uomo che forse si chiamava Schulz. Se L'amore graffia il mondo, pur piacendomi, mi aveva indotto a ritenere che il romanziere torinese fosse uno scrittore del dolore, tanto ne sono pervase appunto le altre due sue opere che ho letto (Il dolore perfetto e appunto L'amore graffia il mondo), questo libro, che narra la vita di un essere umano dalla nascita alla sua tragica scomparsa, è invece solo pervaso e a tratti, soprattutto nelle ultime pagine, da un senso di malinconia. Bruno Schulz, inginocchiato nel ghetto ai piedi del capitano Gunther della Gestapo, che sta per premere il grilletto della pistola puntata sulla sua testa, rivive in quei pochi attimi quella che è stata la sua esistenza, fin dalla nascita descritta in modo del tutto originale e che crea subito con il lettore un rapporto di viva e interessata partecipazione. La sua vita non è stata monotona, anzi svariate vicende, anche drammatiche, hanno coinvolto la sua famiglia, ma lui si rinchiude in Drohobycz, questa piccola cittadina galiziana, prima parte dell'impero austro-ungarico, poi della Polonia e ora dell'Ucraina. Essa è per lui un ghetto volontario, un ambiente sicuro come la sua grande casa in cui poter dar sfogo alla sua immensa fantasia, dai primi tratti di gesso incerti dell'infanzia ai più considerevoli dipinti della maturità, e poi, consapevole della forza delle parole, arriva quel libro (Le botteghe color cannella) in cui c'è tutta la sua vita e indirettamente la storia di un secolo, il XX, di profondi sconvolgimenti, che tuttavia non turbano l'atmosfera tranquilla e rassicurante della cittadina fino all'invasione nazista, a quei prussiani dispotici, esaltati e criminali di cui aveva paventato anni prima la venuta il rabbino della comunità. La mano di Riccarelli è leggera, lascia parlare il suo personaggio, non ne forza l'espressività, ma è come se l'autore stesso fosse lo spettatore di un film che si proietta davanti ai suoi occhi. Non manca, però, come dicevo una malinconia di fondo, un senso di incertezza che né le mura di Drohobycz, né le fantasie di Bruno possono cancellare. E infatti, fra i tanti animali dei suoi sogni, poco a poco, unica superstite resta una renna ferita, come profonda è la ferita nell'animo di Schulz che vede il suo mondo disgregarsi progressivamente, fino a implodere con l'arrivo dei tedeschi.
Tanti libri hanno descritto l'Olocausto, ma, credetemi, come l'ha descritto Riccarelli negli ultimi capitoli di questo romanzo non c'è stato nessuno. Lì la sua narrazione, pur essendo distaccata, ci presenta una realtà tangibile, un'atmosfera opprimente e devastante e ciò senza che si parli di un campo di sterminio. Poco a poco le paure, le privazioni, la perdita di speranza rendono questi ebrei, e fra essi Bruno Schulz, degli esseri privi di volontà, degli uomini rassegnati e pronti ad andare, senza la minima opposizione, al macello, all'ultimo e definitivo sacrificio. Caduta l'illusione dell'arrivo del Messia che con la sua spada fiammeggiante distrugga l'orda nazista e salvi il suo popolo, non resta più nulla se non la morte.
Ecco, Riccarelli mi ha stupito nell'aver descritto cosi bene una condizione che a noi, comodamente seduti nelle nostre case, al caldo, ben saziati e sicuri risulterebbe altrimenti non del tutto comprensibile.
Ma non è l'unico merito del libro, perché i pregi sono moltissimi, fra cui i protagonisti descritti in modo meraviglioso; al riguardo basti pensare allo zingaro saggio e gobbo Emram, che tutte le primavere arriva con il suo orso ballerino e con gli altri del suo clan nella cittadina, portando una luce di allegria e di poesia, e che per Schulz sarà un grande amico; indimenticabili poi sono Hoffmann, il marito della sorella di Bruno, finito tragicamente, oppresso da debiti familiari che lui non aveva contratto; se il padre di Bruno, nella sua estrema originalità, può sembrare una drammatica macchietta, esemplare è la descrizione di Danuta, la domestica di famiglia, degna di farne parte e che sarà l'unica a salvarsi, perché deciderà di andare per tempo in America, liberandosi dalla inconscia costrizione di quella città, un tempo sicura nella statica tranquillità dell'impero asburgico, ma che gli eventi del nuovo secolo hanno privato della sua intima forza, rendendola un normale agglomerato di case, in balia dei venti di guerra.
Quando ho ultimato la lettura di questo libro ho avuto la netta sensazione di trovarmi di fronte a un capolavoro e per quanto sia a conoscenza del fatto che il giudizio di altri sia piuttosto controverso, a una seconda rilettura la mia convinzione si è rafforzata. Contenuti, stile, misura nella narrazione, capacità di ricreare ambienti e atmosfere, piacevolezza sono tutti elementi che inducono a definire Un uomo che forse si chiamava Schulz il più bel romanzo scritto da Riccarelli, nonché un libro senza tempo, uno di quei testi, stupendi, che manterrà inalterato anche per gli anni a venire il suo valore.
Leggetelo, perché di opere così ne appaiono poche nell'immensa produzione letteraria di un secolo.

L'amore graffia il mondo - Ugo Riccarelli

Ugo Riccarelli era uno scrittore che amava la dolcezza, senza che questa dovesse trasformarsi in mielosità, un compito tuttavia non facile, perché basta poco e, soprattutto quando si narra di storie con un contenuto anche drammatico, eccedere è sempre possibile, anzi non vi è nulla di più facile, così che l'autore è costretto a procedere in bilico su un'infida e sottile lama di rasoio. Ho notato questa sua capacità in Il dolore perfetto, un romanzo dall'equilibrio altrettanto perfetto come il suo titolo. Ho sperato che questa abilità fosse presente anche in quello che non potrà che essere il suo ultimo libro, essendo Riccarelli venuto a mancare precocemente, ma in L'amore graffia il mondo questo difficile equilibrio c'è stato per quasi tutta l'opera, perché poi, purtroppo, nelle ultime pagine l'autore si è lasciato prendere la mano, forse influenzato dalla vicenda di Ivo, bimbo nato prematuro con problemi polmonari, questi ultimi così simili alla sua vicenda personale, tanto da sembrare una parziale autobiografia. Per fortuna si tratta di poche pagine che finiscono con l'incidere poco sul giudizio complessivo del romanzo, senz'altro ottimo, ma non un capolavoro come Il dolore perfetto.
Ci sono tutti gli elementi per sbalordire ed entusiasmare il lettore: una storia che inizia fra le due guerre mondiali, una bambina, chiamata Signorina dal padre capostazione come una locomotiva a vapore dalle linee aggraziate, la ristretta mentalità degli uomini dell'epoca, più padroni che padri dei figli, e che considerava le donne solo come custodi del focolare domestico, soffocando la naturale personalità e impedendo alle stesse di realizzarsi, i difficili anni del secondo conflitto (stupenda al riguardo la descrizione del bombardamento notturno sulla stazione), l'amore di Signorina per un giovane piemontese, che si concretizzerà poi in un matrimonio, i sacrifici di questa donna per mandare avanti la famiglia, il dolore e i patemi d'animo per quel figlio così malato tanto da rendere necessario un trapianto di polmoni.
Ispira una naturale simpatia la protagonista, impossibilitata a realizzare il suo grande sogno di diventare stilista di moda, dapprima per il diniego del padre e poi per la necessità di condurre la famiglia, di fatto sostituendosi al marito, brava persona, ma incapace in questo ruolo.
È sempre lei che si sacrifica, e così per amore finisce con il rinnegare l'innato talento e quella vocazione, che ogni tanto inevitabilmente riemerge, per essere di nuovo assopita; la sua è una rinuncia più istintiva che razionale e che l'orienta verso una vita di normale serenità, quando ciò è possibile, perché in effetti, per un motivo o per l'altro, di tranquillità non ne ha, tranne quando sarà avanti negli anni, sola nella casa con il marito, con il figlio guarito in giro per il mondo a tener concerti, senza più problemi economici. Tutto lascia prevedere una serena vecchiaia, ma non sarà così, ed è proprio qui che Riccarelli sembra aver perduto il prezioso equilibrio, nel senso che, senza che la vicenda si concluda con un tutti felici e contenti, magari con Signorina che mette su un atelier di moda, bastava si fermasse lì, con due vecchi che finalmente potevano gioire di giorni sereni. La morte sappiamo che conclude ogni vita, ma sommare disgrazie a disgrazie ha sempre un limite, e forse Riccarelli si è lasciato prendere la mano condizionato dal suo stato di salute, da quel progredire della malattia di cui avvertiva inconsapevolmente l'incombente tragico esito. Così come nel suo caso non ci poteva essere una tranquillità, lo stesso destino lui lo ha riservato alla sua protagonista, che penso abbia amato più di tanti altri suoi personaggi, dipingendola in modo accattivante fin da bambina e perfino creando due suoi amici unici, dotati di una simpatia incredibile: il maiale Milio e l'oca Armida, anche loro scomparsi quando tutto sembrava andar bene.
Mi permetto di segnalare alcune pagine che, secondo me, sono di grande bellezza, anche per il tema trattato: la nascita di Ivo, vista non dall'esterno, ma dall'interno, cioè dal nascituro, è qualche cosa di incredibile, tanto è avvincente e realistica.
Costanti poi rimangono le capacità poetiche di Riccarelli, il suo italiano fluido, l'ammirevole ambientazione, insomma Il dolore graffia il mondo è senz'altro da leggere, e riguardo al titolo si può dire che sì' l'amore può aiutare ad affrontare le avversità, ma in fin dei conti è anche vero che nel percorso di una vita è più facile che sia il mondo a graffiare l'amore.

Il dolore perfetto - Ugo Riccarelli

“Appena qualche attimo prima di morire, appoggiata al nocciòlo del giardino, l'Annina emerse dall'ombra in cui la sua mente si era nascosta da molti anni e, all'improvviso, in quei brevi istanti che la morte ancora le concesse, come se fosse in volo rivide la casa col pino e la Mena che pregava appoggiata a un angolo della madia, e di fronte alla Mena vide sua madre partorirla urlando di un dolore che le sembrò perfetto, e solo alla fine, quasi spiando, scorse la propria testa uscire da quel corpo rosso e gonfio dallo sforzo, e sentì per l'ultima volta l'odore di viole del suo fratello gemello che da dentro la pancia la spingeva nel mondo.

Fu come un lampo, uno starnuto di una forza così intensa che l'Annina si dovette appoggiare con tutte e due le mani al nocciòlo per non cadere, e il suo ultimo respiro le uscì in una voce flebile, quasi un sussurro.
<<Ma guarda…>> disse, sorpresa da quello spettacolo stupefacente.
Poi lasciò che un sorriso le ammorbidisse la bocca, scivolò lentamente verso la base del tronco, e là si fermò per sempre. “

Di Riccarelli non avevo mai letto nulla, sapevo solo che era considerato un buon scrittore ed è stata proprio la sua recente scomparsa a indurmi a occuparmi di lui, a vedere se i giudizi ampiamente positivi di critici di rango rispondessero a verità, almeno secondo il mio metro di valutazione. Devo anche dire che nutrivo il timore che tanti elogi non fossero meritati, ma quando ho aperto questo libro e ho letto la prima pagina - che ho riportato integralmente sopra - ho provato nel contempo una grande gioia e un dolore perfetto. Una grande gioia perché mai mi era accaduto di trovarmi di fronte a una descrizione così semplice, ma al tempo stesso sublime, di una morte; un dolore perfetto per aver dubitato delle qualità di questo narratore, una sorta di rimorso per un uomo capace di scrivere in questo modo e già scomparso troppo presto. La figura di questa Annina che ha perso la memoria e la ritrova nel momento supremo, ricordandosi proprio della sua nascita, delinea in un arco di tempo brevissimo i due momenti salienti della vita di ogni essere umano: la sua comparsa sul mondo e la sua dipartita, due eventi che sono il recto e il verso di una stessa medaglia, la vita. È un destino, questo, che ci accomuna, ma è ciò che si è stati e si è fatto vivendo che lascia traccia di noi, e nelle storie di questo stupendo romanzo il ricordo è sempre presente, partendo, nella saga di due gruppi familiari, dall'Unità d'Italia per arrivare quasi ai giorni nostri, storie di individui che s'incrociano con la grande storia, che ne fanno parte, che contribuiscono a crearla. Alla famiglia del Maestro, ispirata da nobili ideali e da un profondo senso di libertà e di rispetto per la dignità di ogni uomo, si contrappone quella dei Bertorelli, commercianti di maiali, più inclini alla materialità, al guadagno e a un certo egoismo, piuttosto che alla solidarietà.
Le vicende di queste due famiglie procedono parallele per un certo periodo di tempo, ma poi accade che, con un matrimonio, si incrocino, e sullo sfondo troviamo i grandi fatti, i moti popolari del 1900, le cannonate di Bava Beccaris, la prima guerra mondiale, l'epidemia di febbre spagnola, l'avvento del fascismo, il secondo grande conflitto, l'occupazione tedesca, la resistenza, il difficile dopoguerra. Nelle storie di queste due stirpi si legge la storia d'Italia, si legge con piacere, perché non ha il carattere didattico e spesso impietoso dei saggi, secondo un metodo che ha solo un precedente, lo stupendo Cuore di pietra, di Sebastiano Vassalli.

Noi ritroveremo così anche le nostre radici nelle vicende di queste due famiglie, segnate da fatti luttuosi, ma anche da grandi gioie, una serie di accadimenti che incalzano in una narrazione sospesa fra un realismo esemplare e un immaginario fiabesco, perfettamente integrati, capaci di far sognare quando la realtà è troppo brutta, insostenibile, smorzando i toni, svelenendo l'orrore di tanti eventi tragici.
Riccarelli ha una grande leggerezza - ma meglio sarebbe dire delicatezza - nello scrivere, frutto anche di una notevole sensibilità che si riflette nei tanti personaggi, nelle loro gioie, nei loro dolori. E al riguardo cos'è il dolore perfetto? È quello del Maestro che pensa alle ingiustizie del mondo oppure quello di quando va incontro alla morte con la forza solo dei suoi ideali, è quello di Rosa che accomuna la violenza insensibile sul maiale ammazzato a quella con cui il marito consuma il matrimonio, solo per fare degli esempi.
Il dolore perfetto sarà anche quello che vi avvolgerà leggendo della morte di non pochi protagonisti vissuti solo per testimoniare il loro ideale di libertà, ma sarà anche quello che vi prenderà, giunti all'ultima pagina, consapevoli che non ve ne sono altre di questo capolavoro che tiene avvinti dall'inizio alla fine, scatenando un'ondata emozionale da cui è difficile sottrarsi.