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Milano : A. Mondadori, 2001
Abstract: In questo romanzo tutto comincia con la fondazione di una delle tante colonie di dalmati e di albanesi riparati in Istria nel Seicento per sfuggire ai turchi e rifarsi una patria, grazie al sostegno non disinteressato della Serenissima, in una terra spopolata dalla peste. Questi fuggiaschi, costretti anche allora, come avvine oggi sulle coste della Puglia, a loschi traffici, si accorgono ben presto di essere stati raggirati: il suolo che li accoglie non è molto più fertile di quello, irto di spine e sassi, che si sono lasciati alle spalle. Che fare? Chi si piega al banditismo, chi si rimbocca le maniche per costruire un proprio podere. Tra questi il leggendario Zorzi Jurcan, che esercita le milizie alla guerra e diventa il padrone del territorio.
Moderators: Valentina Tosi
27 giugno 2024 alle 11:02
È indubbio che Tomizza possa essere considerato uno scrittore di frontiera e come tale si é adoperato nei suoi libri per descrivere la vita, per nulla tranquilla, degli abitanti dell'Istria, trapiantati qui nel XVII secolo dalla Dalmazia e dall'Albania, quasi un regalo della Serenissima che, oltre a sottrarre all'influenza turca quelle popolazioni, trovò il modo di non renderle parte integrante della Repubblica, facendo balenare il sogno di una terra in cui avrebbero finalmente potuto stare senza alcun patema d'animo. Il terreno è brullo, richiede immani sforzi per cavarne qualche cosa di che vivere, ma i nuovi arrivati non si danno per vinti in partenza, si danno invece da fare e poco a poco quella landa inospitale diventa una zona in cui poter finalmente piantare le radici. Ma la zona è di periferia, soggetta a non infrequenti invasioni e anche il padrone ogni tanto passa di mano, con l'impero asburgico succeduto alla repubblica veneta, e a sua volta seguito dall'occupazione italiana. Tutte esperienze che presentano aspetti positivi e negativi, non come quella solo negativa che si ha finita la seconda guerra mondiale, allorché Tito impone la sua lingua e la sua illiberale visione politica.
Ancora una volta Tomizza ci parla della storia del suo popolo, travagliata, e anche senza speranza e di quella nuova patria, rimasta infine una chimera, e lo fa in un modo inconsueto, con un libro che non è un saggio storico e nemmeno un romanzo storico; è invece un'analisi sofferta della propria condizione, con il desiderio di potervi tornare un giorno, ma non come ospite, bensì come padrone di quei quattro sassi.
Più che in altre sue opere si avverte il dolore per questa posizione di un popolo che racchiude due anime, quella dalmata e quella istriana, probabilmente acuito dal sentore dell'avvicinarsi della morte, tanto che il libro sarà pubblicato postumo, e in questa luce può anche essere interpretato come un testamento, di ciò che è stato e di ciò che avrebbe potuto essere.
Non ha la forza di Materada, né la sublime poesia de La miglior vita, eppure Il sogno dalmata lascia egualmente il segno e chiude la produzione letteraria di uno che può essere giustamente considerato uno dei maggiori autori del secolo scorso.
In questo senso vale la pena di leggerlo, cercando di cogliere il tratto poetico che di tanto in tanto caratterizza mirabilmente la sua scrittura, consapevoli che costituisce il suo commiato, ancora una volta e fino ultimo da uomo coerente e amante della libertà.
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