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Il filosofo in camicia nera - Mimmo Franzinelli
Al fascismo, per avere una consacrazione che andasse al di là del semplice spirito di un movimento, mancava una personalità, di chiara fama, che lo teorizzasse, una patente di nobiltà a cui un Mussolini, già al potere, non poteva che bramare. Del resto in Giovanni Gentile il duce trovò l’elemento adatto: di destra, ma liberale, e quindi non ancora fascista – ma lo diventerà in breve tempo – l’uomo, insegnante di filosofia, titolare di prestigiose cattedre universitarie, è il fondatore di una sua teoria filosofica, da lui denominata attualismo, che si può sintetizzare nel concetto che solo quello che si realizza attraverso il pensiero costituisce la realtà in cui il filosofo si riconosce. Non vado oltre, riguardo a questa teoria, per i miei limiti nella materia e anche perché non è lo scopo del bel saggio storico di Mimmo Franzinelli. Evidentemente parlare di questa filosofia ricollegandola al fascismo non rientrava negli scopi di Mussolini, a differenza di ciò che in effetti coniò Gentile come finalità del fascismo stesso, e cioè quello di creare un uomo nuovo, spirituale, per niente materialista e destinato a grandi imprese. E’ un bel fumo negli occhi che opportunamente inculcato nelle masse avrebbe fatto sì che le stesse intendessero come uomo nuovo Mussolini, esempio a cui tendere per dare un senso elevato alla propria vita. Come è ben noto, Giovanni Gentile venne assassinato dai Gap di Firenze il 15 aprile 1944, omicidio che fece, e fa ancora, molto discutere perché si ritiene non sia giusto punire un ideologo.
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Nuto Revelli - Giuseppe Mendicino
Quel che apprezzo sempre di più negli scritti di questo autore, oltre alla passione che affiora qua e là, è la capacità di parlare di un altro scrittore e delle sue opere in modo semplice, accattivante, ma non per questo non esauriente. Se uno vuole sapere chi fosse Mario Rigoni Stern, quale importanza ha rivestito in campo letterario non deve far altro che sfogliare uno dei numerosi lavori di Mendicino sul narratore di Asiago, certo che passerà poi inevitabilmente a leggerne i libri.
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LTI - Victor Klemperer
I libri che parlano della Shoah sono, per fortuna, moltissimi e raccontano di esperienze dirette, sono frutto di approfonditi studi storici e in genere esaminano questo tragico fenomeno con un approccio globale, pur cercando di evidenziare motivi che ancor oggi, oltre che apparire demenziali, non riusciamo del tutto a chiarire. Il nazismo non è stato solo un caso politico, ma ha voluto fortemente rappresentare una nuova idea di società basata sulla violenza non solo fisica, ma anche verbale. Al riguardo, Victor Klemperer, insegnante al’Università di Dresda, da cui fu costretto a dimettersi per le leggi razziali, ha scritto fra il 1933 e il 1945 dei diari, frutto di un’osservazione attenta, non disgiunta da una riflessione approfondita, in cui da catedrattico di Filologia spiega come sia possibile che la lingua di un regime totalitario, se sapientemente diffusa, a piccole, ma ripetute dosi, diventi un veleno devastante in grado di trasformare perfino la coscienza di un popolo, fosse anche il più evoluto, il più colto, il meno recettivo. E’ allora che la lingua non diventa solo uno strumento per comunicare, ma un’arma che consente da un lato di omologare tutti al pensiero del capo e dall’altro un’arma altrettanto feroce che rimuove lo spirito critico, ricaccia nel più profondo il senso individuale di umanità. E queste parole sono quelle che Klemperer sente mentre lavora, oppure che pronuncia Goebbels nei suoi istrionici discorsi alla radio, che si leggono sui giornali nazisti oppure sul Mein Kampf. Per quanto possa sembrare incredibile, le mutazioni nell’uso del linguaggio, le parole mutuate da idiomi di altri, perfino la punteggiatura concorrono a questo sconvolgente risultato. Addirittura esemplare è il caso delle iniziali, della loro grafica come nel caso delle SS, dove ci sono due saette che danno l’idea da un lato della rapidità di azione di chi fa parte di quel corpo e dall’altro dell’inevitabilità della punizione di chi cerca di opporsi. Nel teatro di ogni dittatura - un teatrino grottesco quello dell’epoca mussoliniana, un teatro tragico wagneriano quello del nazismo - tutto poggia su riti che richiamano antiche e improbabili virtù e su parole che colgano nel segno, che dimostrino quell’onnipotenza che in realtà non c’è. Se questo libro vuole essere una particolare testimonianza, finisce anche però con il diventare un monito, una raccomandazione di stare ben attenti a come il linguaggio cambia, come vengano coniate nuove parole (al riguardo facebook è una miniera inesauribile) perché dietro c’è sempre un disegno, il tentativo di classificare la gente in amica e nemica, il disprezzo del pensiero individuale per arrivare a imporre quello collettivo conforme ai voleri di chi comanda. RENZO MONTAGNOLI - 4 anni fa |
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Gente di trincea - Lucio Fabi
Più o meno tutti, sia per aver visto filmati d’epoca, sia per aver letto romanzi come Niente di nuovo sul fronte occidentale e Un anno sull’altipiano, abbiamo un’idea di cosa sia stata la Grande guerra, di quanto misere e terribili fossero le condizioni dei soldati in trincea, di come la morte fosse compagna fedele di chi combatteva, in ogni momento, sia per il concreto pericolo di essere uccisi dal proiettile di un cecchino o dall’esplosione di una bomba, sia per la visione continua dei numerosi corpi insepolti e in putrefazione. Abbiamo provato un senso di pietà, anche un certo ribrezzo nel leggere di certi fatti, ma mai e poi mai avremmo potuto sapere come era la vita, e anche la morte, sui campi di battaglia, sia per i militari che per i civili, se non ci fosse stato questo libro di Lucio Fabi; così possiamo sapere come vestivano i soldati, come erano addestrati, cosa mangiavano, come potevano soddisfare le più semplici esigenze corporali, come e dove riposavano, come avvenivano gli avvicendamenti e i turni di riposo, il trattamento ai civili dagli occupanti, i rapporti con i familiari a casa, insomma, e non voglio dilungarmi, tutto e anche di più di quello che si desidererebbe conoscere. Si tratta di un’opera che per completezza non ha eguali, quattrocentodieci pagine fitte fitte che riescono a dare concretamente l’immagine di chi, in divisa o in abiti borghesi, fu coinvolto in quel grande conflitto, e non si parla solo di italiani, ma anche di austriaci. Il fatto che riguardi gli opposti contendenti è tanto più importante perché veniamo a conoscenza di comportamenti simili, di una vita estremamente disagiata che ha accomunato i nostri e i nemici, uguali perfino nel trattamento riservato alle popolazioni occupate, sospettoso, inquisitore, non di rado, purtroppo, anche feroce. Questo dimostra che indipendentemente dalla nazionalità e dalla divisa il comportamento degli esseri umani, pur nell’eccezionalità di un conflitto, è sostanzialmente analogo. Entrambi combattono più per paura di essere uccisi che per convinzione, sono capaci di di gesti di umana pietà come di incredibili nefandezze, sono carnefici e vittime di una rigorosa e fredda disciplina senza la quale probabilmente getterebbero le armi alle ortiche. Non è un libro facile da leggere, anche perché a volte può sembrare un po’ tedioso per effetto delle minuziose descrizioni, ma arrivati alla fine si comprende senz’altro che cosa sia stata veramente la Grande guerra, una mattanza che ha accomunato nelle sofferenze e nell’orrore entrambi gli schieramenti. Fabi non giudica, racconta senza enfasi e senza mai cadere nella retorica, è uno storico serio che non fa altro che raccogliere i dati delle fonti e confezionare un testo che credo possa essere preso a esempio per completezza e serietà, una di quelle rare opere dove ciò che conta sono i fatti, nella loro crudezza, nella loro asettica descrizione, senza personali e rischiose interpretazioni. RENZO MONTAGNOLI - 5 anni fa |
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Il cattivo tedesco e il bravo italiano - Filippo Focardi
Fin da ragazzo, allorchè si parlava soprattutto della seconda guerra mondiale, una frase ricorrente era “Italiani brava gente” in contrapposizione ad asserzioni del tipo “i tedeschi erano belve assetate di sangue”. Poichè sono italiano mi sentivo quasi orgoglioso, mi vedevo in guerra coraggioso sì, ma pure pietoso, disponibile ad aiutare le famiglie dei nemici. Era un mantra che finiva per portare alla convinzione che i nostri soldati fossero diversi, soprattutto dai tedeschi, che fossero degli autentici eroi, ma anche stimati se non addirittura amati dal nemico. Poi, leggendo testi di storia seri, e quindi non basandomi su quelli scolastici, quasi mai sinceri, ho scoperto purtroppo che anche noi non eravamo bravi, magari non avevamo messo in pratica un olocausto, non eravamo arrivati nelle città sovietiche per ammazzarvi prima di tutti gli ebrei e poi anche altri cittadini, tanto per dare un esempio e restare in esercizio. Invece, le occupazioni fasciste sono state sostanzialmente in linea con quelle naziste, nonostante anche di recente alcuni distinguo da parte di politici, uno su tutti Silvio Berlusconi, che vede il fascismo come un fenomeno politico-sociale nel complesso del tutto normale, fino all’alleanza con Hitler, il cui funesto influsso poi portò a degenerazioni senz’altro esecrabili. Non è così, ed è inutile che i neo fascisti neghino l’evidenza dei fatti, perché, per quanto a lungo celate come vergogne nazionali, le stragi compiute in Etiopia bastano da sole a dimostrare che Mussolini andava per le spicce, che emanava ordini volti ad effettuare degli eccidi, ordini per lo più eseguiti con la massima partecipazione. Insomma, troppo a lungo abbiamo assistito a un rifiuto collettivo della memoria della dittatura fascista e delle guerre dalla stessa intraprese. E così, siamo pervenuti a un’idea di autoassoluzione con quegli “italiani brava gente”. Come è stato possibile chiudere gli occhi di fronte alle evidenze e credere ciecamente a ciò che ci assolveva? Ecco a queste domande risponde l’interessante saggio storico di Filippo Focardi che non intende aggiungere altro a quelle che sono le ricerche iniziate una cinquantina di anni fa sugli eccidi compiuti dagli italiani, studi che portano la firma di illustri autori, quali Angelo Del Boca e Giorgio Rochat, ma, e questo viene precisato da subito, <questo libro intende ricostruire lo specifico percorso di costruzione di una narrazione italiana dell’esperienza della seconda guerra mondiale.> Detto in parole più semplici il lavoro di Focardi intende dissacrare l’intento revisionistico di non poche opere scritte nell’immediato dopo guerra dai nostri generali sconfitti e dai gerarchi scampati alla punizione che avrebbero meritato, opere che, stranamente – ma poi è abbastanza chiaro il motivo -, sono state recepite come oro colato nei testi scolastici, tutti miranti all’autoassoluzione.
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La messa dell'uomo disarmato - Luisito Bianchi
Confesso che quando ho saputo di questo libro e chi fosse il suo autore è sorta immediata una naturale curiosità, cioè quella di conoscere che ne pensa un sacerdote - e Luisito Bianchi lo è - di un fenomeno di assoluta rilevanza quale è stata la Resistenza. A onor del vero, questo trepido desiderio è rimasto un po' frenato quando, in possesso del libro, mi sono accorto della sua mole. Al momento l'ho accantonato, perché 860 pagine mi spaventavano, e così è rimasto per una ventina di giorni sul comodino, quasi a vegliare la mia notte. Ogni volta che mi coricavo buttavo un'occhiata e quel bel campo di grano in copertina accresceva di più il senso di incertezza; poi, una sera, non ho resistito e l'ho preso fra le mani, ripromettendomi di iniziare con un paio di pagine. Se non avessi guardato l'orologio avrei fatto l'alba, perché quei piccoli fogli di carta fluivano fra le mia dita come le fresche acque di un ruscello e la lettura, oltre che gratificante, risultava lieve. C'è voluto il suo tempo, ma poi sono arrivato alla fine, non con un'aria di trionfo, ma con il dispiacere che non vi fossero altre pagine.
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Vol. 3: Piccole storie - Giovanni Piubello
Pubblicati nell’ambito del progetto “Per ricordare Giovanni Piubello” i romanzi (Matti beati e Gli ubbidienti) con il primo volume del cofanetto a lui dedicato, dati alle stampe con il secondo volume i racconti, divisi in due raccolte omogenee, e le poesie, si sarebbe potuto pensare che sarebbe rimasto ben poco, e invece la prolificità di questo artista ha imposto ai curatori di procedere con un terzo volume. Nello stesso sono ricompresi racconti di tema vario nati dal dialogo giornaliero in piazza delle Erbe con ortolani, giornalai, ambulanti del mercato cittadino del giovedì, con lo scaccino della concattedrale di Sant’Andrea (al riguardo di quest’ultimo è veramente spassosa la narrazione di “Spogliarello in Sant’Andrea”, una vicenda per nulla oscena o blasfema). Si potrebbero definire Piccole storie e così le hanno intitolate i due curatori dell’opera omnia Mario Artioli e Vladimiro Bertazzoni. Forse si tratta di racconti non così belli come quelli delle raccolte omogenee, ma pur tuttavia sono il sintomo di una capacità dell’autore di spaziare con la creatività in campi assai vari e diversi; peraltro più d’uno di questi è senz’altro riuscito benissimo, in particolare “Tutti al ricovero?” sul non facile tema della destinazione, per gli ultimi giorni della loro vita, di non pochi anziani, fra cui figura anche il padre, in una narrazione più malinconica che ironica, affettuosa e dolente nel parlare della dipartita del proprio genitore, un racconto che ci svela l’animo autentico di Piubello, spesso rinchiuso nella corazza di una innata timidezza.
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Vol. 2: I Racconti: Zingara, Altre storie - Giovanni Piubello
I curatori Mario Artioli e Vladimiro Bertazzoni, nel proporre l’opera omnia di Giovanni Piubello, hanno deciso di riunire in un unico volume i racconti e le poesie, scelta a prima vista opinabile, vista l’evidente difformità tipologica, ma che ha un senso ove si tenga presente che i primi sono di gran lunga maggiori di numero delle seconde, non poche, ma comunque nemmeno tante da giustificare una pubblicazione a se stante. Dell’abilità di narratore dell’autore già ho ampiamente riferito in occasione della stesura della nota critica ai suoi due romanzi Matti beati e Gli ubbidienti, e quindi non c’è da meravigliarsi se anche nei racconti si riscontrino i pregi che sono propri di Piubello, come una linearità espositiva, ma comunque non priva di originalità, una struttura sempre sicura, vicende che affondano per lo più nei ricordi dell’infanzia, descrizioni di paesaggi, di ambienti e di atmosfere puntuali, precise, accompagnate ogni tanto da una certa verve poetica e con sullo sfondo sempre una garbata e gradevole ironia. Viene proprio da pensare che lui non abbia avuto in vita i meriti che gli spettavano, insomma il successo che anche per una sua refrattarietà al clamore, all’essere al centro dell’attenzione, aveva lui stesso ostacolato. Forse è il caso di dire che Piubello scriveva pressoché esclusivamente per il piacere di scrivere, per farne oggetto di quelle conversazioni alla bancarella con cui lui trascorreva beatamente la sua giornata. Parte di queste prose, peraltro, non era sconosciuta ai mantovani perché il locale quotidiano La Gazzetta di Mantova aveva pubblicato a puntate i racconti, che alla fine furono riuniti in un volume intitolato Zingara (dal titolo di uno degli stessi, forse il migliore) che incontrò un notevole interesse, tanto da arrivare alla terza ristampa. I Curatori, con felice scelta, nel presente libro hanno suddiviso la narrativa breve in due grandi capitoli, di cui il primo dedicato unicamente alle prose che vennero racchiuse appunto nella pubblicazione intitolata Zingara, mentre le altre sono state tutte riunite con il generico titolo “Altre storie”. Come sempre accade in questi casi ci sono brani che possono più o meno piacere, ma è indubbio come il livello medio sia più che buono. Si tratta di storie semplici, niente di epico, trame che vedono coinvolta, a vario titolo, quasi sempre povera gente, frutto di indubbia creatività che tuttavia – è una mia ipotesi – nascondono un fondo di verità, e d’altra parte stando tutti i giorni sotto i portici si poteva osservare un campionario umano vario e a volte anche di particolare interesse, individui sconosciuti (e che tali spesso rimanevano) che si fermavano a curiosare e magari a conversare con Piubello.
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Vol. 1: I Romanzi: Matti Beati, Gli ubbidienti - Giovanni Piubello
Che Giovanni Piubello sia stato un uomo di riferimento per i mantovani amanti della cultura é fuor di dubbio; sostava con la sua bancarella di libri per lo più usati all’inizio di quei portici che da piazza Andrea Mantegna, impreziosita dalla Basilica di Sant’Andrea, portano alla storica piazza Sordello ed era lì con il preciso scopo di conversare di letteratura con chi lo avvicinava e magari di riuscire a vendergli qualche volume, visto che di qualcosa doveva pur vivere. Spirito acuto, grande osservatore, si dilettava pure di scrittura, con una produzione multiforme che va dalla prosa alla poesia, lavori quasi sempre auto pubblicati e venduti in loco, come anche una rivista, La Bancarella, ben 64 numeri usciti dal 1955 al 1966. Andò oltre la notorietà cittadina quando Rizzoli gli pubblicò il primo romanzo, Matti beati, che ricevette anche il prestigioso premio Duomo. Per lui, comunque, non cambiò nulla e non cercò di cavalcare l’onda del successo, rinchiudendosi nel suo piccolo mondo, rappresentato dalla bancarella. Restò sempre conosciuto in Mantova, mentre poco a poco la fama si mostrò effimera a livello nazionale e dopo la sua prematura scomparsa si corse anche il rischio che perfino nella sua città ci si dimenticasse di lui. Ampio merito va dato quindi all’Amministrazione Provinciale di Mantova, al Comune di Mantova e alla Fondazione Banca Agricola Mantovana che nel 2003, nel ventennale della scomparsa di Piubello, hanno inteso ricordarlo provvedendo alla ristampa di tutti i suoi scritti, che erano ormai diventati di difficile, e in non pochi casi di impossibile reperibilità. I curatori Mario Artioli e Vladimiro Bertazzoni idearono così un cofanetto di quattro volumi, di cui il primo è relativo ai romanzi, a Matti beati e a Gli ubbidienti, quest’ultimo in precedenza mai dato alle stampe.
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Album Piubello - a cura di Mario Artioli e Vladimiro Bertazzoni
Il quarto volume del cofanetto dedicato a Giovanni Piubello, dopo che era stato pubblicato nei primi tre ogni suo scritto, è una sua biografia, frutto di più mani e in grado, ancor di più della lettura delle sue opere, di far comprendere chi fosse prima di tutto l’uomo e poi l’artista. Si avvicendano così fonti di diversa natura, che vanno dalle testimonianze ai documenti, da alcune prose autobiografiche a fotografie, da un breve riepilogo della sua vita, più che altro anagrafico, a brevi interventi di chi l’ha conosciuto e ha inteso delineare il suo ritratto. Sono ben 353 pagine che per varietà, novità anche e qualità dei diversi autori sono in grado di far conoscere Giovanni anche a chi non ha mai avuto occasione di vederlo, oppure di chiarire la natura del personaggio a coloro, fra i quali il sottoscritto, che hanno avuto occasionalmente l’opportunità di scambiare due chiacchiere. Nel mio caso penso sia accaduto non più di un paio di volte, peraltro brevi, e avevo ritratto l’impressione di un uomo originale, non matto, ma comunque diverso dalla media, più interessato a parlare di letteratura che a vendere, tanto che mi chiesi all’epoca se quella bancarella non costituisse solo il passatempo di un uomo che viveva di rendita. E invece era la sua unica fonte di reddito, che non gli consentiva di certo voli pindarici. E’ molto bello leggere come ne parla chi l’ha conosciuto non di certo occasionalmente e i giudizi sull’uomo e sull’artista sono convergenti: Piubello era così, un poeta, anche se scriveva soprattutto la prosa, che viveva romanticamente per la sua arte, per le conversazioni letterarie con gli amici, per qualche riunione conviviale con fini sempre culturali; però era sostanzialmente solo, tranne la compagnia di qualche felino, perché era scapolo e non avrebbe potuto essere diversamente dato il tipo di vita scelto. Fra le testimonianze mi ha colpito una di Andreina Bergonzoni che ebbe modo di conoscerlo per puro caso mentre si aggirava per Mantova alla ricerca di notizie su Arturo Frizzi per la sua tesi di laurea. L’incontro non fu il solo e quindi il giudizio della Dr.ssa Bergonzoni non può essere considerato di primo acchito, ma ponderato. Scrive, fra l’altro: “Tornai con un bottino di notizie che mi avrebbero consentito di scrivere almeno tre capitoli della mia tesi, con uno strano libro di Gobbi ricevuto in dono e con una certezza in cuore: avevo incontrato un poeta, un uomo che aveva fatto della libertà la sua bandiera, dell’onestà intellettuale un credo, di quella bancarella una patria dell’anima.”. Sono dell’opinione che quelle poche parole dopo i due punti riescano a descrivere in modo impeccabile Giovanni Piubello, un uomo e un artista rari; entrambi avrebbero meritato maggior fortuna, ma come posso io pensare che le soddisfazioni economiche e materiali dovessero arridergli? Non ha mai cercato la notorietà e anche dopo la pubblicazione di Matti beati e la vincita del premio Duomo non ha fatto nulla per battere il ferro quando era caldo; no, a Gioàn non interessava leggere il suo nome a lettere cubitali sui giornali, né seguire la vendita delle sue opere, non era questo il suo mondo perché invece la bancarella era il rifugio sicuro in cui riusciva a stemperare, con gli incontri con la gente e lo scambio di parole, una tristezza di fondo che lo portava alla solitudine, un male intimo non raro nei poeti e non dimentichiamo che Gioàn scriveva anche poesie.
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