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R: Pista nera - Antonio Manzini
Primo contatto con un libro scritto da Antonio Manzini, Pista nera, il primo romanzo con protagonista il vicequestore Rocco Schiavone, un personaggio del tutto particolare e seconde me veramente riuscito. Eppure si tratta di un poliziotto corrotto, che ama la bella vita, indubbiamente dalle grande capacità investigative, ma non di certo un esempio di correttezza e onestà; pur tuttavia finisce con il destare simpatia, con una sua ironia puntuale, che strappa più di un sorriso, e con una sua coerenza che lo rende degno di essere rispettato. Rocco Schiavone non è certo il commissario Maigret, e neppure l’investigatore Hercule Poirot, è semplicemente Rocco Schiavone, un uomo che cerca di ottenere il meglio della vita, ma nella sua disonestà colpisce solo dei criminali.
In questo Pista nera è alle prese con un delitto del tutto particolare; infatti su una pista sciistica di Champoluc viene rinvenuto un cadavere semisepolto nella neve, un corpo martoriato in quanto sullo stesso è passato un cingolato usato per battere i percorsi degli sciatori. Le tracce sono poche e il luogo del delitto è stato inquinato dal maldestro comportamento di alcuni poliziotti, così che Schiavone, da poco trasferito ad Aosta per aver pestato a Roma i piedi di qualcuno che conta, ha ben poche elementi per poter avviare le indagini: delle briciole di tabacco, resti organici e un fazzoletto nella trachea, il che esclude l’incidente e avvalora l’ipotesi dell’omicidio. C’è poco da essere contenti di fronte a cosi pochi e al momento apparentemente incomprensibili indizi, ma il nostro vicequestore non si dà per vinto e per quanto sia circondato da collaboratori non altezza, tranne uno su cui farà il massimo affidamento, piano piano riuscirà ad avere idee sempre più chiare fino a quando, in occasione dei funerali religiosi della vittima, proprio in chiesa provvederà ad assicurare i colpevoli alla giustizia.
Pista nera è un poliziesco veramente riuscito, con una trama ben congegnata e personaggi indovinati, per non parlare della conclusione del tutto logica. La suspense non viene mai meno, anzi si resta incollati alle pagine con il desiderio di leggere velocemente per arrivare a capire chi siano i colpevoli e solo verso la fine si comincerà a sospettare, più per una sensazione che per un ragionamento completo, logica che sarà ineccepibile quando il vicequestore metterà le mani sui colpevoli, verso uno dei quali poi mostrerà tutto il suo disprezzo.
E’ in romanzo ben scritto, con uno stile snello, un linguaggio semplice, ma non elementare, contraddistinto dall’immediatezza, una dote tanto più apprezzabile in presenza di un poliziesco.
Di conseguenza Pista nera è senz’altro meritevole di essere letto.
RENZO MONTAGNOLI - 2 anni fa
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R: Non è stagione - Antonio Manzini
Non c’è che dire, il vicequestore Rocco Schiavone è proprio bravo, visto che, sia pure a suo modo, riesce a venire a capo ai casi più complicati, come questo che vede il rapimento di una bella ragazza, figlia di un costruttore edile della zona. Aosta è una piccola città, così minuscola rispetto alla sua Roma, ma lì è stato trasferito per punizione e invece dei bearsi dei calori primaverili deve sorbirsi anche una nevicata a maggio. In tutta sincerità uno come lui in una piccola realtà, anche del crimine, è sciupato; c’è da dire però che da quando vi è stato trasferito i cittadini non è che possano dormire sonni tranquilli, visti i numerosi casi delittuosi che proliferano e si moltiplicano a vista d’occhio, ma ripeto, non c’è da aver paura, tanto c’è il vicequestore Rocco Schiavone. Anche questa volta riuscirà a venire a capo dell’indagine, magari procedendo a tentoni, sbagliando anche, ma, come si suol dire, quel che conta è il risultato e questo è senz’altro positivo. Peraltro questo poliziesco è particolarmente dinamico, con una corsa contro il tempo, un colpo di scena dietro l’altro, con indizi che sviano le ricerche e con intuizioni che rimettono in carreggiata. Quando tutto sembra finito e ci manca solo la scritta “e vissero felici e contenti” ecco un fatto imprevedibile: Rocco Schiavone sfugge fortunosamente a un assassino che lo vuole morto. Purtroppo ci sarà qualcuno, innocente, che morirà al suo posto e questo delitto si inserisce in una storia che è presente in altri episodi della serie e rappresenta un altro filone di indagini che probabilmente verrà sviluppato in libri successivi, perché Schiavone quando è toccato così nel vivo diventa una belva, tanto più che anche lui ha dovuto soffrire per la morte violenta della moglie, il cui ricordo mai viene meno, al punto che di tanto in tanto dialoga con la stessa.
Quindi l’omicida, il killer, prima o poi cadrà nella rete che andrà a svolgere il vicequestore.
Per il resto nulla di nuovo, con personaggi ben delineati, una trama possibile con una soluzione logica, insomma alcune ore di lettura da trascorrere piacevolmente.
RENZO MONTAGNOLI - 2 anni fa
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R: L'angelo di Monaco - romanzo di Fabiano Massimi
La vicenda raccontata è accaduta veramente, i personaggi che appaiono vi erano coinvolti, ivi compresi i due investigatori, insomma tutto quanto raccontato è effettivamente avvenuto e l´abilità del narratore è di avere messo nero su bianco, non asetticamente come in un rapporto di polizia, ma dinamicamente e in modo appassionante un fatto che lascia un alone di mistero sulla natura della morte di una bella ragazza, Angelica Raubal. Si è trattato di suicidio, come si è cercato di far credere, o di omicidio? La nipote dell´astro nascente Adolf Hitler, suo tutore, è stata vittima della gelosia dello zio, oppure di una depressione?
In questi casi, ove figurano politici di alto livello, tutto è possibile, soprattutto quando questi uomini importanti sono membri autorevoli del partito nazionalsocialista e rispondono ai nomi di Adolf Hitler, Joseph Goebbels, Rudolf Hess, Hermann Goering, Heinrich Himmler, Reinhard Heydrich, Baldur von Schirach e Heinrich Hoffmann. Il commissario di polizia che indaga, Sigfried Sauer, con la collaborazione del collega Helmut Forster, sa di procedere su un campo minato, costretto peraltro a lavorare fra chi gli intima di chiudere l´istruttoria nel giro di poche ore e chi invece vuole che proceda fino in fondo per scoprire la verità. E che si tratti di un´indagine difficile e pericolosa è testimoniato dal numero delle improvvise morti dei possibili testimoni, pure loro suicidi, ma non con un colpo di pistola come Angelica Raubal, Geli per gli amici, bensì appesi per il collo a una corda. I colpi di scena non mancano, anzi si susseguono, e il povero Sauer, che assomiglia fisicamente in modo straordinario a Reinhard Heydrich, non sa più a che santo votarsi, tanto più che è intervenuto un suo improvviso innamoramento per una cameriera. I giorni sono troppo corti, 24 ore non sono sufficienti, corre di qua e di là, o con un aereo guidato personalmente da Goering, o con una bella auto messa a disposizione, con tanto di autista, da Adolf Hitler. Passano i giorni, da sabato 19 settembre 1931 al venerdì della settimana successiva in un turbinio di avvenimenti, senza che si possa arrivare a una certezza, cioè se si sia trattato di omicidio o di suicidio, ma questo dilemma perde d´importanza nel momento in cui Sauer deve lottare per non soccombere e per salvare la donna amata.
L´angelo di Monaco è un giallo storico confezionato da Fabiano Massimi in modo impeccabile, perché non c´è una nota stonata, non c´è un personaggio che non sia stato tratteggiato con rara abilità; l´ambientazione e le atmosfere sono rese benissimo e il ritmo è costante, non blando, ma sostenuto, con qualche accelerazione dove solo è indispensabile. Il commissario Sauer è un personaggio di tutto rilievo, descritto bene, con i suoi timori, le sue incertezze, più che mai giustificate dal fatto che nessuno dei coprotagonisti è esattamente come sembra.
Il romanzo è veramente bello e talmente ben strutturato da far pensare che possa essere stato scritto da qualche esperto narratore anglosassone, e invece Fabiano Massimi è italianissimo e di Modena.
Mi pare superfluo il mio invito a leggere un´opera che sicuramente risulterà di completa soddisfazione.
RENZO MONTAGNOLI - 3 mesi fa
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R: Se esiste un perdono - romanzo di Fabiano Massimi
A Massimi fa riconosciuto il merito di aver portato a conoscenza di molti italiani la figura di Nicholas Winton, che, unitamente a Doreen Warriner e Trevor Chadwick, portò in salvo in Gran Bretagna 669 bambini, in buona parte ebrei, con trasporti in treno dalla Cecoslovacchia dalla fine del 1938 agli inizi del 1940.
L´autore, per far questo, pur attenendosi ai fatti, ha imbastito un romanzo storico, ove ovviamente sono presenti i tre personaggi di cui ho appena fatto il nome, nonché altri, che presumo in buona parte di fantasia. Per non far mancare un ulteriore motivo di tensione ha poi inventato una protagonista che narra la vicenda, tale Petra Linhart, una donna giovane, ma intrepida, che collabora attivamente alla riuscita dei trasporti, ma che ha un difetto per nulla trascurabile, cioè fa il doppio gioco. Finge infatti di essere rimasta vedova e di aver perso il figlio che aveva in grembo per colpa dei nazionalisti boemi filo tedeschi, e invece è accaduto il contrario, perché sono stati i nazionalisti anti tedeschi a provocare la morte del marito e il conseguente trauma che le ha fatto perdere il nascituro; così lei lavora con dedizione, ma riferisce alla Gestapo. Questo frutto della creatività poteva essere il fiore all´occhiello del romanzo se Massimi fosse stato capace di andare in profondità nella personalità della doppiogiochista e invece è rimasto abbastanza in superficie, come ha fatto anche per gli altri protagonisti che sono tanti, direi troppi e che in una serie di eventi finiscono con l´intorbidire l´acqua, con il diluire troppo la necessaria tensione che presenta una vicenda come questa. Anche la figura della bambina del sale, enigmatica, quasi magica, non è ben delineata e da protagonista centrale diventa quasi una comprimaria. A voler essere sintetici direi che, mettendo troppa carne al fuoco, la cottura è diventata assai difficile e il risultato non è certo dei migliori. E´ un peccato, perché L´angelo di Monaco, precedente a questo, mi aveva colpito per la sua straordinaria bellezza, mentre Se esiste un perdono è sì leggibile, ma di sicuro non resterà fra i libri meritevoli del mio ricordo.
RENZO MONTAGNOLI - 2 mesi fa
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1912+1 - Leonardo Sciascia
Negli ultimi anni della sua vita, quasi pago dei successi ottenuti dai suoi romanzi, ma più probabilmente perché la vena creativa si era un po' esaurita, Leonardo Sciascia prese spunto da fatti realmente accaduti per una loro rivisitazione, chiamando gli scritti infatti Cronachette. E tale è anche 1912 + 1, titolo alquanto strano, ma che, come vedremo in seguito, ha una sua precisa ragion d'essere. E' del 1913 il fatto della cronachetta, sicché è logico pensare che lui fosse un po' superstizioso, ma così non è, perché quella votata agli scongiuri è ben altra persona, un altro scrittore allora in grande spolvero; questi, benché meridionale – e di conseguenza per lui il 13 doveva essere considerato un numero fortunato – per una repentina infatuazione per il Nord dell'Italia, ove soggiornerà a lungo fino alla morte, iniziò a vedere il 13 come sinonimo di jella, di sfortuna nera e allora prese a non citarlo, tanto che in uno dei 50 esemplari dell'edizione su papier de Hollande del Martyre del Saint Sebastien, scritto direttamente in francese da Gabriele D'Annunzio durante il suo non breve soggiorno ad Arcachon, ove si era rifugiato incalzato dai creditori, figura una dedica autografa <<à Fernand Charles Ecot “Chaque flèche est pour le salut.” Gabriele d'Annunzio, 7 jiun 1912 + 1>>. Questo libro entrò nella biblioteca di Sciascia che non poté fare a meno di notare la stranezza della data e alla luce della sua scarsa stima dell'autore abruzzese mise bene il rilievo la circostanza agli inizi della cronachetta. A parte questo inciso, il fatto non riguarda direttamente il vate nazionale, se non per quella atmosfera di fulgide apparenze e di squallide realtà che sembravano caratterizzare l'inizio del XX secolo, con la conquista della Libia e la feroce repressione dei ribelli, con le classi sociali ben delineate e talmente chiuse da risultare impenetrabili. Ed è appunto da un incontro fra un ceto superiore e uno inferiore che nasce il fatto, con la contessa Maria Tiepolo, moglie del capitano di Stato Maggiore Carlo Ferruccio Oggioni, che l'8 novembre 1913 uccide con un colpo di pistola sparato quasi a bruciapelo l'attendente del marito, il bersagliere Quintilio Polimanti, nella vita civile falegname, ma ribattezzato dai giornali ebanista per cercare di rendere meno evidente la differenza di classe. Il processo che ne seguì è l'occasione per Leonardo Sciascia di mettere in risalto vizi privati e pubbliche virtù, spesso con un'ironia dirompente, da cui esce un quadro per nulla lusinghiero degli uomini in genere e di quel particolare contesto sociale.
Sono continue annotazioni, riflessioni che accompagnano gli atti del procedimento che, come non poteva che essere prevedibile, si concluderà con l'assoluzione dell'assassina. Il sostegno indispensabile alle forze armate, appena uscite vittoriose dalla campagna di Libia, e il patto Gentiloni che chiamava alle urne i cattolici, prima diffidati dal pontefice, a patto che il parlamento si attenesse rigorosamente ai principi cristiani, non cedesse alla tentazione di fare una legge sul divorzio e considerasse pertanto la famiglia una e indivisibile influenzarono i giurati e così accadde che un colpevole, peraltro reo confesso, anche se a suo dire per difendere la propria onorabilità, diventasse di colpo innocente, in un iter che di verità univoche non ne ebbe, ma tante, tantissime, in un contesto fatalmente pirandelliano, in cui apparenza e realtà si confondono, confondendo anche chi è chiamato a giudicare.
Non è certo un capolavoro di Sciascia, che tanti peraltro ne ha scritti, ma 1912 + 1 è uno di quei libri, di gradevolissima lettura, a cui ci si affida con fatalismo constatando che il nuovo secolo, il nostro, porta troppi segni del precedente, tanto che le somiglianze son più delle differenze, e credo che se fossero ancora in vita Pirandello e Sciascia si limiterebbero a sorridere, come per dire “che novità! Ve l'avevamo già detto, no?”.
RENZO MONTAGNOLI - 3 anni fa
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A ciascuno il suo - Leonardo Sciascia
Un giallo di raffinata costruzione che tuttavia non è un giallo o almeno, come tale, è del tutto atipico: questo è il bellissimo romanzo di Sciascia A ciascuno il suo.
Del resto Italo Calvino, in una lettera a Sciascia del novembre del 1965, scriveva: “ Ho letto il tuo giallo che non è un giallo, con la passione con cui si leggono i gialli, e in più il divertimento di vedere come il giallo viene smontato, anzi come viene dimostrata l'impossibilità del romanzo giallo nell'ambiente siciliano”.
La vicenda è di quelle che appassionano il lettore per arrivare alla soluzione, ma le descrizioni dei personaggi, delle atmosfere, degli ambienti è prioritaria, quasi che Sciascia volesse far sapere che in un simile contesto tutto ciò che avviene non è per caso e rientra in una normalità dettata dalla sempre presente associazione mafiosa.
La trama, con l'investigatore improvvisato, questo professor Laurana che ha un vizio mortale per il luogo dove vive, cioè la curiosità, è peraltro avvincente, ma ripeto che quel che conta è lo sfondo, con la vita di piccola provincia, il circolo dei notabili, la connivenza, magari obbligata, con le attività di malaffare.
Ne esce un quadro di una Sicilia racchiusa in uno schema di ordinaria struttura malavitosa tale da considerarla normale, in una rarefatta atmosfera di consapevole impossibilità di cambiare le cose.
L'abilità narrativa di Sciascia si conferma anche in questo romanzo, con una realtà che ci viene rappresentata nella sua autentica e ambigua consistenza, ricorrendo ad allusioni, a parole dette e non dette, a personaggi descritti magistralmente.
Lo sfondo è costituito appunto dalla precisa analisi dell'animo siciliano, dalla naturale presenza della vita e della morte, dal radicato concetto dell'indissolubilità della proprietà e dalle pulsioni erotiche, che prorompono diventando piacevoli sensi di colpa.
Il professor Laurana ha il torto di essere vittima di un sistema che non può perdonargli la difformità a uno schema precostituito e immutabile nel tempo, sebbene lui non abbia l'intenzione di scardinarlo.
Del resto l'affermazione che chiude il romanzo, per bocca del parroco di Sant'Anna, un prete con poca vocazione, dimostra inequivocabilmente che il pragmatismo può arrivare in un simile ambiente all'assurdo di considerare del tutto normale, perché ormai consolidato, il castello di connivenze, anche solo omertose, con il potere mafioso.
Infatti, alla confidenza che si appresta a fare con tutte le dovute cautele il commendator Zerillo e relativa alla figura del professor Laurana, il sacerdote risponde secco, a troncare la discussione: ”Era un cretino.”
A ciascuno il suo è un romanzo di tale qualità che ne ritengo indispensabile la lettura.
RENZO MONTAGNOLI - 3 anni fa
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A futura memoria - Leonardo Sciascia
“Questo libro raccoglie quel che negli ultimi dieci anni io ho scritto su certi delitti, certa amministrazione della giustizia e sulla mafia. Spero venga letto con serenità.”
Leonardo Sciascia
Questo libro è costituito da una raccolta di articoli che sono stati pubblicati in un periodo che va dal 1979 al 1988 su diversi settimanali e quotidiani nazionali.
Letti acriticamente possono sembrare autonomi, non legati da un filo conduttore, ma se si presta la massima attenzione, soprattutto ove si consideri che Sciascia in tutta la sua attività letteraria si è sempre attenuto a un atteggiamento di aperto contrasto con l'ufficialità dei fatti, troppo incline a celare verità spesso in antitesi con l'evento, è possibile comprendere la rilevante importanza che hanno per conoscere la storia italiana, cosi travagliata, degli anni '80.
Lo scrittore parte da fatti di cronaca, spesso eclatanti, per una riflessione sul ruolo dello Stato e su una certa incontrovertibile specularità della sua struttura e dei suoi sistemi con quelli del fenomeno mafioso, due entità contrapposte che vivono in osmosi.
Se in origine per primo aveva evidenziato che una certa delinquenza non era un fenomeno comune, a se stante, ma bensì era una struttura radicata nel territorio siciliano e pronta a espandersi a macchia d'olio ovunque, passando poi a rilevare connivenze con lo stato, negli ultimi anni di vita aveva saputo cogliere la confusione esistente fra l'ordine costituito e quello mafioso.
Sono articoli anche con affermazioni brucianti, come quello con cui afferma che il generale Dalla Chiesa fu ucciso perché non aveva capito la mafia nella sua trasformazione in multinazionale del crimine, il che aveva provocato nel figlio dello scomparso una querelle, sostenuta su giornali con toni aspri e piuttosto accesi, con Sciascia che ribadiva il suo concetto, pur nel rispetto del caduto, e con l'altro che ne faceva una questione personale, anzi familiare, ma senza riuscire a contestare in modo logico il pensiero dell'autore siciliano.
L'analisi stringente di Sciascia si rivela poi profetica nel caso del presentatore Enzo Tortora, accusato da un pentito e ingiustamente costretto in carcere. Nell'occasione fu uno dei pochi a prendere le sue difese con argomentazioni incontrovertibili e non per un semplice moto di simpatia e alla fine si è potuto vedere che aveva ragione.
Così come illuminanti sono i suoi giudizi sulla morte di Calvi, su personaggi mafiosi come Buscetta, Sindona e Michele Greco.
Non aveva peli sulla lingua e analizzava, sviscerava arrivando poi a conclusioni che provocavano risentimenti vari, dando luogo a polemiche, a scontri giornalistici.
Con questi articoli è probabile che si sia fatta, almeno all'epoca, una vasta rete di nemici, in una battaglia da Don Chisciotte contro non tanto dei mulini a vento, ma dei poteri immensamente grandi.
Forse qualche volta non ci ha azzeccato, ma quasi sempre è riuscito a vedere oltre l'apparenza, al di là dell'ufficialità, comportamenti che poi, sovente diversi anni dopo, sono venuti alla luce del sole.
A futura memoria è quindi un libro sempre attuale ed è quindi ovvio che la sua lettura è più che raccomandabile.
RENZO MONTAGNOLI - 3 anni fa
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Alabama - Alessandro Barbero
L’assalto al parlamento americano dei sostenitori di Trump, delusi per la sua mancata rielezione, un vero e proprio arrembaggio di suprematisti, di appartenenti a sette razziste, di individui della violenza più cieca è stato visto da milioni di telespettatori, grazie alle riprese televisive. Una gran parte di questi facinorosi sono del sud degli Stati Uniti, di zone in cui il razzismo non è certo storia recente, anzi ha origini ben lontane, alimentato da chi, come allora, detiene posizioni di privilegio, sostenendo per difenderle la cupa rabbia di gente povera e ignorante, orientata a punire per la loro condizione non i colpevoli, ma i diversi, e fra questi soprattutto i neri, visti come negri, gli schiavi di un tempo a cui mai hanno riconosciuto una parità di diritti con i bianchi.
Questo preambolo potrebbe far pensare che Alabama, l’ultimo romanzo storico di Alessandro Barbero, parli del fatto di cui ho accennato, ma non è così, perché invece è la narrazione di una strage di soldati unionisti neri avvenuta nel corso della guerra di secessione, una storia con cui si mostra il volto di un’America retriva che da allora non è cambiata; è così che la mente corre a episodi più recenti, come l’assassinio di Martin Luther King, leader del movimento per i diritti civili degli afroamericani avvenuto a Memphis (Tennessee) il 4 aprile 1968 e l’assalto del 6 gennaio 2021 al Campidoglio degli Stati Uniti per opera appunto dei delusi sostenitori del presidente uscente Donald Trump.
Barbero è molto abile a descrivere un fatto di circa centocinquant’anni fa con l’escamotage di una giovane studentessa di un college che, poco dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor, per una sua ricerca è riuscita a trovare un superstite della guerra di secessione da cui spera di avere informazioni su una notizia, di cui non ha certezza, secondo la quale al termine di una battaglia i soldati confederati avrebbero massacrato i soldati dell’Unione di pelle nera che si erano arresi. Si dipana così il racconto del reduce solo al termine del quale avremo certezza che la strage è effettivamente avvenuta e che alla stessa lui ha preso parte. Quel che più conta, però, è la storia che l’uomo ricorda dal suo arruolamento fino a quell’episodio, una storia di pochi ricchi piantatori di cotone e di tanti bianchi che tirano avanti alla meno peggio, non schiavi come i neri, ma succubi dei padroni del vapore che abilmente orientano le loro insoddisfazioni verso i lavoratori di pelle nera. Superstizioni, una religione di facciata, l’ignoranza diffusa (la maggior parte sono analfabeti) sono un terreno fertile perché individui frustrati si sentano forti solo con i più deboli e incolpevoli.
E’ un romanzo di forte tensione quello di Barbero, perché pagina dopo pagina nel lungo monologo di questo anziano reduce emergono a poco a poco segnali, tracce, cause che sfoceranno nel massacro. C’era il rischio di stancare il lettore ma non è così perché la narrazione del vecchio è diretta, si ha l’impressione che sia davanti a chi legge, raccontandoci il tutto. Quindi, è un’opera che avvince dalla prima all’ultima pagina, una lettura da cui si esce consapevoli dei motivi di certi comportamenti, fantasmi di un passato che ogni tanto ritornano.
RENZO MONTAGNOLI - 3 anni fa
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Album Piubello - a cura di Mario Artioli e Vladimiro Bertazzoni
Il quarto volume del cofanetto dedicato a Giovanni Piubello, dopo che era stato pubblicato nei primi tre ogni suo scritto, è una sua biografia, frutto di più mani e in grado, ancor di più della lettura delle sue opere, di far comprendere chi fosse prima di tutto l’uomo e poi l’artista. Si avvicendano così fonti di diversa natura, che vanno dalle testimonianze ai documenti, da alcune prose autobiografiche a fotografie, da un breve riepilogo della sua vita, più che altro anagrafico, a brevi interventi di chi l’ha conosciuto e ha inteso delineare il suo ritratto. Sono ben 353 pagine che per varietà, novità anche e qualità dei diversi autori sono in grado di far conoscere Giovanni anche a chi non ha mai avuto occasione di vederlo, oppure di chiarire la natura del personaggio a coloro, fra i quali il sottoscritto, che hanno avuto occasionalmente l’opportunità di scambiare due chiacchiere. Nel mio caso penso sia accaduto non più di un paio di volte, peraltro brevi, e avevo ritratto l’impressione di un uomo originale, non matto, ma comunque diverso dalla media, più interessato a parlare di letteratura che a vendere, tanto che mi chiesi all’epoca se quella bancarella non costituisse solo il passatempo di un uomo che viveva di rendita. E invece era la sua unica fonte di reddito, che non gli consentiva di certo voli pindarici. E’ molto bello leggere come ne parla chi l’ha conosciuto non di certo occasionalmente e i giudizi sull’uomo e sull’artista sono convergenti: Piubello era così, un poeta, anche se scriveva soprattutto la prosa, che viveva romanticamente per la sua arte, per le conversazioni letterarie con gli amici, per qualche riunione conviviale con fini sempre culturali; però era sostanzialmente solo, tranne la compagnia di qualche felino, perché era scapolo e non avrebbe potuto essere diversamente dato il tipo di vita scelto. Fra le testimonianze mi ha colpito una di Andreina Bergonzoni che ebbe modo di conoscerlo per puro caso mentre si aggirava per Mantova alla ricerca di notizie su Arturo Frizzi per la sua tesi di laurea. L’incontro non fu il solo e quindi il giudizio della Dr.ssa Bergonzoni non può essere considerato di primo acchito, ma ponderato. Scrive, fra l’altro: “Tornai con un bottino di notizie che mi avrebbero consentito di scrivere almeno tre capitoli della mia tesi, con uno strano libro di Gobbi ricevuto in dono e con una certezza in cuore: avevo incontrato un poeta, un uomo che aveva fatto della libertà la sua bandiera, dell’onestà intellettuale un credo, di quella bancarella una patria dell’anima.”. Sono dell’opinione che quelle poche parole dopo i due punti riescano a descrivere in modo impeccabile Giovanni Piubello, un uomo e un artista rari; entrambi avrebbero meritato maggior fortuna, ma come posso io pensare che le soddisfazioni economiche e materiali dovessero arridergli? Non ha mai cercato la notorietà e anche dopo la pubblicazione di Matti beati e la vincita del premio Duomo non ha fatto nulla per battere il ferro quando era caldo; no, a Gioàn non interessava leggere il suo nome a lettere cubitali sui giornali, né seguire la vendita delle sue opere, non era questo il suo mondo perché invece la bancarella era il rifugio sicuro in cui riusciva a stemperare, con gli incontri con la gente e lo scambio di parole, una tristezza di fondo che lo portava alla solitudine, un male intimo non raro nei poeti e non dimentichiamo che Gioàn scriveva anche poesie.
La lettura di questo libro è quindi sicuramente consigliata.
RENZO MONTAGNOLI - 5 anni fa
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Alla corte dei Borgia - romanzo di Jeanne Kalogridis
Si vede che i Borgia sono perseguitati da una damnatio memoriae, eppure questa famiglia nobile, il cui principale esponente è stato il pontefice Alessandro VI, al secolo Rodrigo Borgia, per il solo fatto di aver avviato una politica volta ad assoggettare in un unico stato tutte le varie signorie italiane è stata vista, già dalla sua epoca, come il male assoluto. In realtà si comportò né più né meno come i potenti suoi contemporanei, ricorrendo per conquistare nuovi territori - o anche per difendere il proprio status - a guerre, avvelenamenti e ad alleanze realizzate tramite matrimonio. In relazione a quest’ultimo metodo, fra i tanti vincoli coniugali di convenienza vi fu anche quello fra Goffredo Borgia, quarto e ultimo figlio del papa, e Sancia d’Aragona, figlia illegittima del re Alfonso II di Napoli e della sua amante Vannozza Cattanei. Sancia è senz’altro un personaggio interessante, perché la giovane principessa è vivace e ha carattere, quel carattere che non ha il marito, personaggio un po’ scialbo, facilmente oscurato dalle figure del padre Rodrigo e del fratello Cesare.
Quando ho preso il libro (Alla corte dei Borgia), con il quale Jeanne Kalogridis narra di questa protagonista minore del XV secolo, avevo il timore di trovarmi di fronte, più che a un romanzo storico, a una specie di soap opera, a causa dei trascorsi della narratrice, che opera in diversi generi, fra i quali la fantascienza e l’horror; era tuttavia una sensazione e pertanto ho voluto provare. Purtroppo dovrei sempre dare retta al mio istinto perché in effetti, pur rappresentando il libro un mezzo per far trascorrere il tempo, più di tanto non consente, sia per le approssimazioni storiche, sia per una certa leziosità e, soprattutto, perché gli sviluppi della vicenda si intuiscono facilmente. Diciamo che si può leggere giusto per ingannare il tempo, se proprio non ci sono altri mezzi, e in ogni caso non comporta difficoltà di comprensione, stante la carenza di approfondimenti dei personaggi e l’incapacità di creare un’atmosfera che non vada oltre la descrizione degli abiti indossati e delle cerimonie di corte. Non mancano i luoghi comuni, frutto, come è ovvio, più che da risultanze storiche, da dicerie tramandate nei secoli, quali per esempio la figura a tinte fosche di Lucrezia Borgia, spacciata tranquillamente come avvelenatrice, mentre sappiamo che non era così, anzi era una vittima dei raggiri del padre, una donna che troverà finalmente la pace nel 1501 con il terzo matrimonio, quello con Alfonso d’Este, duca di Ferrara, città dove poi morì nel 1519 addirittura in odore di santità.
Alla corte dei Borgia si può indubbiamente leggere, ma è giusto che si sappia che ci sono in commercio romanzi storici sui Borgia di livello molto superiore.
RENZO MONTAGNOLI - 2 anni fa
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