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La visitatrice - Fulvio Tomizza
Fulvio Tomizza venne a mancare nel 1999 e le sue ultime due opere La visitatrice e Il sogno dalmata vennero pubblicate postume, rispettivamente nel 2000 e nel 2001. Entrambe, pertanto, costituisco l’ultima fatica letteraria dell’autore e sono quindi frutto della sua consapevolezza dei traguardi già raggiunti, allorché, avanti con gli anni, è quasi un destino narrare i propri ricordi. In particolare La visitatrice sembra maggiormente il romanzo con cui Tomizza si è interrogato sul suo passato, in cui mi pare spicchi quel naturale rimpianto per le occasioni sfumate, per le opportunità lasciate sfuggire, con la consapevolezza che quella stagione è ormai del tutto andata. Non si tratta di una vera e propria autobiografia, ma di tracce di memoria che vengono a comporre nel loro insieme una vicenda probabilmente di fantasia, ma con un fondo di verità. Il protagonista è un anziano commerciante, assai malato, ma della cui gravità la moglie e la figlia non sono del tutto coscienti; Emilio, così si chiama l’uomo, accompagna le due donne alla stazione ferroviaria da cui prenderanno il treno per Bologna per andare da dei parenti e per fare acquisti legati alle imminenti nozze della giovane. Una volta partite, l’uomo tornerà a casa con l’autobus, seguito da una donna che sembra voler fare la stessa strada, e che in effetti farà, accompagnandolo fin dentro al suo appartamento e rivelandogli di essere sua figlia. Lo sarà? Poco importa nell’economia del racconto, perché questa rivelazione è l’occasione per riscoprire i fantasmi della propria gioventù, è l’innesco per l’esplosiva rivelazione a se stesso che altro e più appagante era un certo amore, forse non piatto come quello derivante dall’attuale matrimonio. E’ tutto un mondo che riemerge dalle nebbie, una testimonianza di una vita un tempo veramente vissuta che solo nella mente di un uomo stanco e ammalato, prossimo alla sua fine, può dare un senso a un’intera esistenza.
La visitatrice è un romanzo malinconico, scritto con un tono distaccato che gli fa assumere un desiderio di imparzialità che commuove, ma che al tempo stesso finisce con il diventare il testamento umano e letterario di un grande scrittore.
RENZO MONTAGNOLI - 3 mesi fa
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Il sogno dalmata - Fulvio Tomizza
È indubbio che Tomizza possa essere considerato uno scrittore di frontiera e come tale si é adoperato nei suoi libri per descrivere la vita, per nulla tranquilla, degli abitanti dell'Istria, trapiantati qui nel XVII secolo dalla Dalmazia e dall'Albania, quasi un regalo della Serenissima che, oltre a sottrarre all'influenza turca quelle popolazioni, trovò il modo di non renderle parte integrante della Repubblica, facendo balenare il sogno di una terra in cui avrebbero finalmente potuto stare senza alcun patema d'animo. Il terreno è brullo, richiede immani sforzi per cavarne qualche cosa di che vivere, ma i nuovi arrivati non si danno per vinti in partenza, si danno invece da fare e poco a poco quella landa inospitale diventa una zona in cui poter finalmente piantare le radici. Ma la zona è di periferia, soggetta a non infrequenti invasioni e anche il padrone ogni tanto passa di mano, con l'impero asburgico succeduto alla repubblica veneta, e a sua volta seguito dall'occupazione italiana. Tutte esperienze che presentano aspetti positivi e negativi, non come quella solo negativa che si ha finita la seconda guerra mondiale, allorché Tito impone la sua lingua e la sua illiberale visione politica.
Ancora una volta Tomizza ci parla della storia del suo popolo, travagliata, e anche senza speranza e di quella nuova patria, rimasta infine una chimera, e lo fa in un modo inconsueto, con un libro che non è un saggio storico e nemmeno un romanzo storico; è invece un'analisi sofferta della propria condizione, con il desiderio di potervi tornare un giorno, ma non come ospite, bensì come padrone di quei quattro sassi.
Più che in altre sue opere si avverte il dolore per questa posizione di un popolo che racchiude due anime, quella dalmata e quella istriana, probabilmente acuito dal sentore dell'avvicinarsi della morte, tanto che il libro sarà pubblicato postumo, e in questa luce può anche essere interpretato come un testamento, di ciò che è stato e di ciò che avrebbe potuto essere.
Non ha la forza di Materada, né la sublime poesia de La miglior vita, eppure Il sogno dalmata lascia egualmente il segno e chiude la produzione letteraria di uno che può essere giustamente considerato uno dei maggiori autori del secolo scorso.
In questo senso vale la pena di leggerlo, cercando di cogliere il tratto poetico che di tanto in tanto caratterizza mirabilmente la sua scrittura, consapevoli che costituisce il suo commiato, ancora una volta e fino ultimo da uomo coerente e amante della libertà.
RENZO MONTAGNOLI - 3 mesi fa
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Franziska - Fulvio Tomizza
E' fuor di dubbio che da Fulvio Tomizza il tema dei confini, siano essi solo territoriali, oppure etnologici, è particolarmente avvertito, anche per un'esperienza diretta.
Ma ci sono anche altri confini, più nascosti, quasi subdoli che possono devastare la vita degli uomini e ne è un tipico esempio Franziska, un romanzo di grande bellezza, in cui la capacità dell'autore di penetrare nell'animo femminile raggiunge vertici inimmaginabili. Già qualche cosa avevo intuito leggendo Gli sposi di via Rossetti, ma l'abilità nell'immedesimarsi, nel comprendere la sfera intima di una donna qui arriva a risultati che non potevo di certo nemmeno ipotizzare, per di più in un uomo.
L'avvio della storia risale a una data fatidica, all'inizio di quel secolo pieno di trasformazioni e di sconvolgimenti che avrebbe visto ben due guerre mondiali.
Il primo gennaio del 1900 nasce a San Daniele del Carso una bambina a cui viene imposto il nome di Franziska. Ai nati in quel giorno, entro le prime sei ore, l'imperatore Francesco Giuseppe ha promesso il suo speciale padrinato e, quel che più conta, una donazione di mille corone.
E' nell'ottica del guadagno, della partecipazione al premio che la levatrice, in presenza di un parto difficile, nulla fa per aiutare la puerpera, con il fine che la nascita ufficialmente avvenga nelle prime sei ore del primo gennaio del 1900.
Così nasce Franziska, ma muore Marija, sua madre.
La bimba crescerà, diventando donna, in un mondo sconvolto da una rapida trasformazione e questo libro parla con tenerezza, ma senza enfasi, dei suoi sentimenti, delle sue emozioni, di un amore forte che poco a poco si diraderà per colpa anche dell'invalicabile confine di classe.
La sua storia con il tenente del genio Nino Ferrari ha tutto il sapore di un'occasione mancata e irripetibile, di un unione incerta fra due mondi che non arrivano a comprendere che i confini sono frutto solo degli interessi umani.
L'amore diventa solo una parentesi, soffocata piano piano dalle difficoltà di un rapporto tra etnie diverse e da classi sociali troppo differenti.
Con lei a Trieste e lui ritornato a Cremona, sua città natale, la relazione prosegue, come negli sposi di Via Rossetti, in forma epistolare. Non c'è più la forza dell'amore, ma è un affetto tormentato che a poco poco si spegne. Resta in lei solo il ricordo di un giorno felice quando si conobbero e fra guerre, eccidi, e finalmente la pace, lo porterà con sé fino alla morte.
La vicenda, descritta così, sembra il tipico melodrammone strappalacrime, ma la grande abilità di Tomizza, che non si lascia mai prendere dalla compassione, fa sì che sia una storia fra le tante, di un rapporto semplicemente difficile fra due sconfitti.
Da leggere, perché lo merita.
RENZO MONTAGNOLI - 3 mesi fa
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Alle spalle di Trieste - Fulvio Tomizza
Ho sempre stimato Fulvio Tomizza per le sue indubbie qualità di narratore, anche se la tematica ricorrente è sempre la sua terra d'origine, quell'Istria territorio di confine in cui si incontrano diverse nazionalità, a volte in pacifica coesistenza, altre invece fonti di attriti che appaiono insanabili. Peraltro, come sempre accade in un autore abbastanza prolifico, si alternano prove sicuramente riuscite, e al riguardo non si può fare a meno di ricordare lo stupendo La miglior vita, ad altre decisamente sotto tono. Nel complesso, comunque, ci si trova di fronte a uno scrittore più che eccellente, a una penna che ci ha lasciato opere che sicuramente non cadranno nell'oblio. Del Tomizza saggista non avevo conoscenza e pertanto mi sono accostato con curiosità a Alle spalle di Trieste, un libro che raccoglie numerosi articoli redatti nel corso di diversi anni e relativi appunto a quel territorio che si sviluppa dietro questa città, ultimo nostro porto a Nord sul mare Adriatico. È un ritorno agli antichi temi, a quella terra da cui l'autore è stato costretto a migrare, ma che è rimasta come una spina nel suo cuore. Alcuni potrei definirli di carattere letterario, come quando parla degli scrittori e poeti di questo vasto comprensorio, altri sono di carattere etnografico, oppure sociologico e anche politico, insomma un ampio ventaglio che ritengo che Tomizza abbia inteso proporre per meglio far conoscere agli altri, soprattutto agli italiani, i problemi di questa terra martoriata nei secoli da guerre e invasioni. Tuttavia, se anche l'offerta è ampia, si può notare la presenza di alti e bassi già riscontrabile nella sua produzione di narrativa, un po' per il lungo arco di tempo nel corso del quale sono stati scritti, un po' perché come saggista mostra diverse pecche fra le quali, fastidiosa, quella di ricorrere a frequenti digressioni, che gli fanno perdere il filo del discorso principale e che imbarazzano anche il lettore. Si tratta in buona sostanza di luci e di ombre, dove le prime sono poche e le seconde sono decisamente maggiori. Fra l'altro, sono un po' tanti gli articoli dedicati a Trieste, la sua città di adozione, e in cui lui, abituato agli ampi spazi della campagna, non si deve essere trovato mai bene, perché questo traspare dalle righe, a volte venate da un vero e proprio astio. In contrapposizione c'è uno scritto sulla Mitteleuropa che da solo merita la lettura del libro, una disamina attenta, quasi puntigliosa che è in grado di fornire una visione esatta di questa vasta regione che raggruppava soprattutto quasi tutti i territori di cui era costituito l'impero austro-ungarico e che tanto ha dato alla letteratura; si sofferma giustamente sul collante che teneva unite tante nazionalità, quel senso dello stato comune poi franato miseramente e disgregatosi del tutto con la Grande Guerra.
Non posso dire, comunque, che come saggista abbia dato buona prova di sé, però il libro merita ugualmente e ritengo che costituisca un corredo indispensabile per conoscere e comprendere meglio questo grande scrittore.
RENZO MONTAGNOLI - 3 mesi fa
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L'ereditiera veneziana - Fulvio Tomizza
Dopo alcune letture poco interessanti, o addirittura insoddisfacenti, ho deciso in questo ultimo scorcio di estate di andare sul sicuro, cioè di affidarmi a un’opera di un autore di comprovata capacità, e allora, per non voler andare troppo indietro nel tempo, per non affidarmi a un classico, ho pensato bene che un narratore come Fulvio Tomizza facesse al caso mio. La scelta non è stata facile, perché della sua produzione ho letto quasi tutto e mi resta ben poco per completare la conoscenza di uno scrittore di indubbie elevate qualità. Fra quel poco ho puntato su L’ereditiera veneziana, che Tomizza ha ricavato da un raro libro di Gianrinaldo Carli (economista, poligrafo, istriano di ampia cultura) imperniato sull’affascinante moglie Paolina, morta assai giovane, a soli venticinque anni. L’epoca è il XVIII secolo, l’ambientazione è nella città di Venezia, ben lontana dall’Istria così cara a Tomizza, ma pur sempre nel Veneto e per di più con il fatto che il marito è originario degli stessi luoghi dell’autore. Dico subito che le aspettative in parte sono andate deluse, restando comunque un’opera meritevole di essere letta. Questo approccio di Tomizza con un’epoca e un luogo che sono lontani dalle trame e ambientazioni dei suoi romanzi, per di più partendo dal libro di un altro autore, lo lasciano indeciso fra lo scrivere una biografia e un romanzo, tanto che finisce con il mescolare i due generi, senza però arrivare ad apprezzabili risultati. Aggiungo che non è improbabile che nell’autore istriano sia sorta una specie di finalità sociologica, visto che in una Venezia settecentesca, tollerante, ma anche perbenista, conservatrice, ma non chiusa a nuove idee, il fatto che la giovane donna con intelligenza e perseveranza riesca a costruire il destino della sua famiglia è un chiaro richiamo alla parità dei sessi, all’epoca probabilmente al massimo ipotizzabile in qualche mente particolarmente aperta. Paolina, donna energica, pratica, non mascolina, anzi molto femminile, sembra quasi una figura di fantasia, ma sappiamo che era proprio così; semmai ciò che si può imputare a Tomizza è di non essere riuscito a trasmetterci con imparzialità le sue caratteristiche, mentre invece ne risulta soggiogato e quindi si avvertono tutte le sue trepidazioni, forse anche qualche eccesso, che finiscono con idealizzare il personaggio, una mitizzazione che pesa un po’ su un’opera che non è certo fra le migliori di Tomizza, ma che è tutt’altro che disprezzabile. Del resto, questo alternarsi di rigore e partecipazione è frutto dell’incertezza dell’autore che, come ho sopra riportato, appare titubante nel decidere se dare all’opera una chiara impronta storico-biografica, oppure quelle caratteristiche proprie della narrativa.
Non è forse il libro che mi aspettavo di leggere, ma comunque è pur sempre un’opera intrigante, che induce anche a riflessioni di non poco conto e di ciò deve essere dato pertanto ampio merito a Tomizza.
RENZO MONTAGNOLI - 3 mesi fa
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Di buona famiglia - di Isabella Bossi Fedrigotti
Premetto che non avevo mai letto nulla di quanto scritto da Isabella Bossi Fedrigotti e così per cominciare ho preso in mano questo romanzo, solleticato anche dal fatto che ha vinto il Premio Campiello.
E' un'opera, questa, per certi aspetti atipica, stante un'impostazione senz'altro originale, divisa com'è in due parti pressoché uguali come lunghezza e ognuna delle quali porta il nome di una delle due sorelle protagoniste. Nella prima Clara, la minore, ormai avanti con gli anni, parla a se stessa e il suo è un continuo volgersi all'indietro per raccontarsi la vita trascorsa, in quella dimora in cui tuttora abita. Di nobile famiglia asburgica, con i genitori tesi a ripetere la stessa esistenza condotta dai loro avi, la donna si è costretta a una identità consona e conforme alle tradizioni di famiglia, in una acquiescenza e obbedienza che sembrerebbero spontanee, innate; in pratica si è trascinata negli anni senza un impeto di vitalità, ma solo ligia al cliché di un mondo in cui tutto è regolato da consuetudini che tendono a cristallizzare il tempo in un unico lunghissimo istante. Non si è sposata, anche se ha avuto un promesso sposo, ovviamente non di sua libera scelta, ma questi per ben due volte il giorno del matrimonio ha disertato l'altare e lei ha continuato a vivere nell'illusione che, prima o poi, si sarebbe deciso a compiere quel passo, da lei visto come un'istituzione propria di ogni donna di buona famiglia.
Virginia, la maggiore, a cui è dedicata la seconda parte e che parla in prima persona, è invece una ribelle, una apparente anticonformista, che ha un desiderio di libertà che si identifica con la sua ricerca disperata di un amore, anche di convenienza, che la tolga da quel mondo così noioso e ripetitivo. Ora è anche lei nella vecchia casa, con Clara, ad ascoltare silenzi che pesano come macigni. Le loro non sono voci, sono urla, ricordi frammentari di un'esistenza che probabilmente vorrebbero non fosse mai stata, entrambe quindi insoddisfatte. Il contrasto latente fra i due caratteri finisce con l'esplodere, così che si ha l'impressione di trovarsi di fronte alla sorella buona e alla sorella cattiva, ma quella buona è l'obbediente Clara e quella cattiva la ribelle Virginia? O forse è il contrario? A una prima lettura è immediata la simpatia per Clara, ma in seconda battuta questa quasi certezza pare incrinarsi, e non sono riuscito a parteggiare in questo conflitto per l'una o per l'altra, anche se trovo in Clara una femminilità tipicamente familiare.
L'età, però, smusserà il dissidio, pur non risolvendo i contrasti di fondo e se anche Virginia lancia quasi un anatema secondo il quale è suo il desiderio di morire per prima, in modo che Clara, definitivamente sola sia costretta a compatirsi, chi ne esce vincitrice è proprio questa, ma non ci può essere soddisfazione in un'esistenza monotona, in una vita vissuta per metà.
Il romanzo è una bella prova di stile, perché non era facile condurre questa contrapposizione non su uno stesso piano, ma su piani separati, in un sottile gioco a cui il lettore piano piano finisce con il partecipare, non come protagonista, ma come giudice. E nulla vieta che le risultanze possano essere diverse da individuo a individuo e sia sempre possibile ribaltare le proprie impressioni, quasi come in un giallo in cui il presunto colpevole e il probabile innocente si confondono.
Considerata però la tematica e anche le particolari sensibilità delle due protagoniste finisce con l'essere un libro che può essere maggiormente apprezzato e compreso da un pubblico femminile e senza che con questo non possa risultare gradito ai maschi, che tuttavia probabilmente non saranno in grado di cogliere sottigliezze peculiari dell'altro sesso.
Da leggere.
RENZO MONTAGNOLI - 3 mesi fa
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R: L'angelo di Monaco - romanzo di Fabiano Massimi
La vicenda raccontata è accaduta veramente, i personaggi che appaiono vi erano coinvolti, ivi compresi i due investigatori, insomma tutto quanto raccontato è effettivamente avvenuto e l´abilità del narratore è di avere messo nero su bianco, non asetticamente come in un rapporto di polizia, ma dinamicamente e in modo appassionante un fatto che lascia un alone di mistero sulla natura della morte di una bella ragazza, Angelica Raubal. Si è trattato di suicidio, come si è cercato di far credere, o di omicidio? La nipote dell´astro nascente Adolf Hitler, suo tutore, è stata vittima della gelosia dello zio, oppure di una depressione?
In questi casi, ove figurano politici di alto livello, tutto è possibile, soprattutto quando questi uomini importanti sono membri autorevoli del partito nazionalsocialista e rispondono ai nomi di Adolf Hitler, Joseph Goebbels, Rudolf Hess, Hermann Goering, Heinrich Himmler, Reinhard Heydrich, Baldur von Schirach e Heinrich Hoffmann. Il commissario di polizia che indaga, Sigfried Sauer, con la collaborazione del collega Helmut Forster, sa di procedere su un campo minato, costretto peraltro a lavorare fra chi gli intima di chiudere l´istruttoria nel giro di poche ore e chi invece vuole che proceda fino in fondo per scoprire la verità. E che si tratti di un´indagine difficile e pericolosa è testimoniato dal numero delle improvvise morti dei possibili testimoni, pure loro suicidi, ma non con un colpo di pistola come Angelica Raubal, Geli per gli amici, bensì appesi per il collo a una corda. I colpi di scena non mancano, anzi si susseguono, e il povero Sauer, che assomiglia fisicamente in modo straordinario a Reinhard Heydrich, non sa più a che santo votarsi, tanto più che è intervenuto un suo improvviso innamoramento per una cameriera. I giorni sono troppo corti, 24 ore non sono sufficienti, corre di qua e di là, o con un aereo guidato personalmente da Goering, o con una bella auto messa a disposizione, con tanto di autista, da Adolf Hitler. Passano i giorni, da sabato 19 settembre 1931 al venerdì della settimana successiva in un turbinio di avvenimenti, senza che si possa arrivare a una certezza, cioè se si sia trattato di omicidio o di suicidio, ma questo dilemma perde d´importanza nel momento in cui Sauer deve lottare per non soccombere e per salvare la donna amata.
L´angelo di Monaco è un giallo storico confezionato da Fabiano Massimi in modo impeccabile, perché non c´è una nota stonata, non c´è un personaggio che non sia stato tratteggiato con rara abilità; l´ambientazione e le atmosfere sono rese benissimo e il ritmo è costante, non blando, ma sostenuto, con qualche accelerazione dove solo è indispensabile. Il commissario Sauer è un personaggio di tutto rilievo, descritto bene, con i suoi timori, le sue incertezze, più che mai giustificate dal fatto che nessuno dei coprotagonisti è esattamente come sembra.
Il romanzo è veramente bello e talmente ben strutturato da far pensare che possa essere stato scritto da qualche esperto narratore anglosassone, e invece Fabiano Massimi è italianissimo e di Modena.
Mi pare superfluo il mio invito a leggere un´opera che sicuramente risulterà di completa soddisfazione.
RENZO MONTAGNOLI - 3 mesi fa
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I Gonzaga - Igor Santos Salazar
Data la notorietà dei Gonzaga, di questa casata che dominò Mantova per secoli, facendola diventare un faro dal punto di vista artistico e culturale, hanno scritto in molti storici, ognuno dei quali ha espresso opinioni in ordine a quella che fu a livello europeo una grande realtà e fra questi c´è anche Igor Santos Salazar, un medievista spagnolo. Le sue ricerche l´hanno portato a scrivere un saggio (I Gonzaga Potenza e splendore di una casata) che non poteva dire tutto in modo approfondito in sole 309 pagine e infatti Salazar ha preferito limitare il suo elaborato dal momento in cui i Corradi, originari di Gonzaga, sottrassero il potere con la forza ai Bonacolsi, quindi dal 16 agosto 1328, fino al 1530, anno in cui Federico II ottenne da Carlo V il titolo di duca.
Tuttavia, benché il periodo sia stato ristretto, sono stati talmente tanti gli eventi avvenuti in quegli anni che si sarebbe potuta logicamente prevedere una sintesi, anche eccessiva. E invece non è stato così, perché pur procedendo cronologicamente, lo storico spagnolo ha saputo porre in evidenza i fatti e gli aspetti più importanti in modo tale da far comprendere al lettore la grandezza di questa casata. Fra l´altro non ha tralasciato di narrare tenendo ben presente il contesto storico dell´Italia all´epoca dei Gonzaga, signori di un piccolo stato, tutti tesi con le arti diplomatiche, con le alleanze, con i matrimoni di convenienza a barcamenarsi, a evitare di essere fagocitati da realtà più grandi, quali la Repubblica di Venezia e il Ducato di Milano.
Non è solo il potere raggiunto con tatto e gradualità che mostra l´importanza di questa dinastia, perché il suo successo è dovuto in larga parte alla passione per le arti, passione non fine a se stessa, ma componente di notevole peso della strategia adottata per raggiungere gli scopi prefissati; infatti non erano certo l´esercito di cui era dotata e la sua economia a farla brillare addirittura a livello europeo, erano invece la tenacia nel farla diventare un centro di cultura, con la costante politica di accoglienza e di prodigalità nei confronti degli artisti.
Salazar è stato capace di rendere bene questi concetti, l´ha fatto in modo accattivante, con una scrittura per niente greve e quindi questo libro è sicuramente meritevole di lettura.
RENZO MONTAGNOLI - 3 mesi fa
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I diari di Hitler - Robert Harris
Nell´aprile del 1983 il settimanale tedesco Stern dichiarò di fronte a un pubblico costituito da circa 200 giornalisti e ventisette troupe televisive che era entrato in possesso dei diari segreti di Adolf Hitler, una notizia sensazionale che purtroppo finì con il rivelarsi il frutto di una colossale truffa, nonostante che fossero stati dati per autentici da tre storici famosi. Fu invece la polizia tedesca a rivelare quanto fossero fasulli, grazie a un´analisi forense attenta e rigorosa che appurò che erano scritti su carta che conteneva poliestere, polimero utilizzato solo dopo il 1953. Il bello è che il contenuto dei diari (60 quadernetti) non portava nulla di nuovo, visto che erano stati scritti copiando testi dei discorsi tenuti dal Fuhrer, e quindi già noti, con l´aggiunta solo di qualche osservazione personale del falsario, tale Konrad Kujau, dalla fedina penale non proprio immacolata. Quindi, qualora fossero stati autentici, non avrebbero avuto un interesse storico, soprattutto non sarebbero riusciti a giustificare la somma di 10 milioni marchi sborsati da Stern per entrarne in possesso.
Come è possibile comprendere il fatto è tanto più eclatante ove si consideri che il reo e la vittima sono tedeschi, gente di teutonica fierezza che è incline a considerare gli abitanti di altri paesi, soprattutto del sud, dei volgari truffatori, gente che magari tenta di vendere il Colosseo a qualche sprovveduto, ma qui se c´era uno sprovveduto è stato chi in Stern autorizzò l´esborso.
Il libro di Robert Harris ripercorre tutta la vicenda, partendo tuttavia da accadimenti ben anteriori, soprattutto per ben definire i personaggi coinvolti; purtroppo, nel far questo, si dilunga un po´ oltre misura, raccontando anche episodi di scarsa utilità, o comunque marginali, e così costringe il lettore a cercare di accelerare i tempi per poter finalmente arrivare alla narrazione della truffa vera e propria, narrazione che è veramente interessante e particolarmente avvincente e che salva l´intera opera, altrimenti gravata da una noia anche eccessiva. Se l´autore materiale, il falsario, è un personaggio del tutto particolare, l´altra figura che tanto è attiva nella truffa è addirittura un reporter di Stern, tale Gerd Heidemann, che prima di essere smascherato riuscì a raggirare molti altri e addirittura anche il falsario, per non parlare di una vecchia volpe come Rupert Murdoch, che abboccò velocemente all´amo.
Come è possibile comprendere si è trattato di una truffa colossale, resa possibile anche dagli errori in buona fede di tre noti storici, fra i quali il famoso Hug Trevor-Hoper, il cui giudizio di autenticità, preso con evidente leggerezza, rese possibile un caso più unico che raro che tenne banco a lungo sui media di tutto il mondo.
Da leggere.
RENZO MONTAGNOLI - 3 mesi fa
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La repubblica di Mussolini - Giorgio Bocca
E' un libro di carattere esclusivamente storico che parla della Repubblica Sociale Italiana, uno dei tanti al riguardo verrebbe spontaneo dire, ma con caratteristiche sue che lo impreziosiscono e ne danno una parvenza di attendibilità, sia nello svolgimento che nel giudizio conclusivo.
Certo è stato scritto da un'antifascista, per di più da uno di quelli che all'epoca combatté gli occupanti nazisti e i loro pseudo alleati dell'appena nata repubblica di Salò, ma a essere onesti vi è da dire che Giorgio Bocca ha cercato in tutti i modi di essere imparziale e di dare più risalto alla storia costituita dai fatti che alle impressioni del tutto personali.
Questa impostazione, che privilegia gli accadimenti senza necessariamente esprimere un'opinione, è accompagnata da interessanti valutazioni su Mussolini in quanto uomo e non statista, con il risultato che attraverso questi giudizi si hanno anche delle plausibili risposte ai tanti perché.
Tutto cominciò, come noto, nel luglio del 1943, quando il 25, durante la seduta del Gran Consiglio del Fascismo, Mussolini venne deposto. Il duce, l'uomo roboante, onnipotente degli anni antecedenti la guerra, era ormai l'ombra di se stesso. I rovesci militari, la certezza che ormai tutto era perso si riflettevano sull'uomo in un'abulia, una incapacità di prendere decisioni di importanza vitale che lo accompagnarono fino alla fine.
Nulla fece, quindi, per opporsi al disegno dei congiurati, anzi finì per assecondarlo accettando quella riunione, pur sapendo quello che sarebbe stato deciso.
Dopo l'armistizio dell'8 settembre e l'avventurosa liberazione dalla sua prigione sul Gran Sasso, Mussolini in terra tedesca, davanti a Hitler che gli proponeva, per non dire imponeva, di essere il capo carismatico dell'Italia non ancora in mano agli alleati angloamericani, ebbe delle reazioni lente, quasi distaccate, proprie di un uomo stanco e sfiduciato.
Forse voleva chiudere la partita, forse voleva anche ritirarsi, ma finì con l'accettare, diventando di fatto il Quinsling italiano. Non vengono formulate da Bocca particolari ipotesi sul perché di questa adesione ai desideri del Fuhrer, tranne quella, peraltro di stampo fascista, di evitare in tal modo guai peggiori a un'Italia ormai occupata dai tedeschi.
Può essere stato questo uno dei motivi, ma certamente non l'unico; è più probabile invece che l'uomo Mussolini, ormai vagante nella nebbia dello sconforto, avesse trovato nel dittatore tedesco colui che l'avrebbe condotto per mano, lasciandogli quelle scelte politiche di partito e non di governo che gli avrebbero dato la parvenza di ritornare ai battaglieri anni di gioventù.
E' peraltro impossibile che non fosse consapevole dei disegni dei tedeschi sull'assetto da dare all'Italia dopo la vittoria in cui ancora credevano, perché l'annessione al Reich del Trentino, del Friuli e della Dalmazia erano sotto i suoi occhi; lui se ne lamentò, ma blandamente, come se si trattasse di una conseguenza inevitabile, e sapeva pure che anche tutta l'Italia settentrionale fino al Po avrebbe fatto la stessa fine, mentre il resto del paese sarebbe stato colonizzato. Forse sperava di restare un giorno in Romagna, la sua Romagna, come governatore di un'appendice della grande Germania, ben poca cosa per uno che aveva avuto grandi sogni di gloria.
Se vi è stata quindi una scelta, è stata solo politica, di conservazione per restare a galla annaspando.
E' giusto dire, inoltre, che il duce era ben conscio che la neonata Repubblica Sociale Italiana era un semplice paravento per consentire ai tedeschi di dimostrare ai loro alleati che, nonostante il 25 luglio1943, nulla era cambiato e per avere di fatto il potere in Italia sotto la copertura di un governo locale.
Le occasioni in cui Mussolini, con lettere indirizzate ai gerarchi nazisti e rimaste senza risposta, manifestò questa sua condizione di burattino furono molteplici, ma l'uomo non era capace di decidere, si illudeva di comandare pur sapendo che non era vero e come una foglia si lasciava trasportare dal vento degli accadimenti fino al suo definitivo annientamento, con una fuga mal preparata e verso l'improbabile rifugio svizzero.
Se da un lato la figura di quest'uomo può anche far sorgere un senso di pietà, quelle più fosche dei suoi ministri e gerarchi, gente che aveva colto l'occasione della repubblica sociale per riscatti politici e per affermazioni personali, forniscono un quadro di squallore e meschinità, concorrendo a formare un giudizio altamente negativo del periodo fascista successivo all'8 settembre 1943.
Non dimentichiamo che l'inazione di Mussolini da una parte, le pretese di governo dei suoi gerarchi dall'altra generarono una guerra civile, dove la naturale contrapposizione fra partigiani e tedeschi occupanti si dilatò al ben più tragico conflitto fra italiani.
Nella lotta di liberazione prevalsero ideali di libertà che invece nella reazione fascista mancarono del tutto, risultando invece determinanti le ambizioni personali e lo spirito di rivalsa. In questo senso non è possibile equiparare i partigiani ai repubblichini, come un certo revisionismo tende a fare; i primi furono combattenti per la libertà, i secondi non furono nient'altro che mercenari, peraltro al soldo dell'occupante tedesco.
C'è da chiedersi comunque come sia potuto sopravvivere uno stato fantoccio per circa due anni e allora si può notare che il fascismo agonizzante si resse da un lato grazie alla compiacenza e all'interesse della classe imprenditoriale e dall'altro in forza dell'appoggio di molti italiani di ogni ceto, per i quali la repubblica di Salò, nonostante la servitù, il sangue fratricida versato, altri non era che un sogno in cui il culto mussoliniano e le relative speranze e illusioni cercarono di protrarsi al di fuori di ogni confronto con la realtà.
Da questo libro, veramente bello, emerge infine la figura di un dittatore grande politico, ma del tutto incapace come statista, un individuo che fece non poche scelte sbagliate, di cui l'ultima gli risultò fatale.
A un personaggio simile gli italiani affidarono i loro destini con i risultati che la storia ci ha riportato, un uomo della provvidenza incapace perfino di dare un orientamento chiaro e coerente alla sua vita.
E' inutile che dica che consiglio vivamente la lettura di questo testo.
RENZO MONTAGNOLI - 3 mesi fa
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