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Nel tempo di mezzo - Marcello Fois
Stirpe terminava con Vincenzo Chironi, che del tutto inatteso, anche perché sconosciuto, entrava in casa Chironi, con la famiglia ormai ridotta ai minimi termini e costituita dal capostipite Michele Angelo e dalla figlia vedova Marianna. Il giovane ha messo piede per la prima volta sull’isola alla ricerca di quelle che sono le sue origini, in quanto figlio riconosciuto di Luigi Ippolito Chironi, morto poi in guerra, e frutto di una sua relazione con una giovane friulana, pure lei deceduta quando il piccolo era ancora in fasce e così finito all’orfanotrofio. Per quanto ovvio, a Nuoro per lui comincerà una nuova vita, così come una speranza di prosecuzione della stirpe sorge nella famiglia, abituata, purtroppo, a soffrire nell’abbondanza. In questo secondo romanzo della saga le vicende umane si susseguono scandite dal ritmo delle stagioni e percorrono, o meglio attraversano, dei tempi di mezzo con un passato che quasi si ribella all’avverarsi dei tempi nuovi, ma pur storcendo il naso li accetta; è così che si snocciola il tragitto della vita con matrimoni, nascite e le immancabili e inevitabili morti fino alla fine degli anni ‘70 del XX secolo. Sullo sfondo del cammino dei protagonisti dall’alba al tramonto si innesta forte, prepotente, ma al tempo stesso rasserenante, pur fra luci e ombre, la natura dell’isola, descritta magistralmente dall’autore, con accenni quasi poetici che impreziosiscono la narrazione e sono accolti entusiasticamente dal lettore perché il poter leggere una trama, indubbiamente interessante, innestata su un palcoscenco fatto di montagne brulle o lussureggianti, di zone aride e di altre rigogliosamente verdi, di un mare cristallino e quasi tropicale, è un piacere intenso per lo spirito. Non esagero se dico che l’ambiente appare dinanzi ai nostri occhi, si percepiscono odori e suoni, ma quel che più conta si ha netta la sensazione di esserse immersi in quel panorama, di essere presenti a vicende liete e ad altre meno liete, in poche parole di essere irresistiblimente attratti dalle righe che compongono le pagine che scorrono veloci, più veloci del tempo della narrazione e che riescono a staccarci dal nostro piccolo attuale mondo per essere partecipi di una realtà passata.
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Liberazione - Sandor Marai
Nel dicembre del 1944 le truppe sovietiche avanzano vittoriose anche in Ungheria e posto l’assedio alla capitale Budapest sferrano l’attacco finale. Due giorni prima del Natale la venticinquenne Erzébet, braccata da mesi, trova fortunosamente un rifugio per il padre, un noto scienziato che i tedeschi e i fascisti ungherese vorrebbero uccidere unicamente perché l’uomo non ha scelto di stare dalla loro parte e dato che nelle dittature o si è con chi comanda, o in caso contrario si è considerati nemici, lui diventa un pericoloso antagonista, anche se a tutti gli effetti la sua scelta è stata di non collaborare. Sistemato il genitore, in pratica murato vivo in uno spazio angusto di una cantina in compagnia di alcuni altri ricercati, la ragazza attende la fine degli scontri nei sotterranei adibiti a rifugio della casa in cui abita, in mezzo a una moltitudine di persone che in quella promiscuità desiderano solo che tutto finisca presto. La vicenda non ha nulla di trascendentale, ma il romanzo ha un suo particolare valore per la grande capacità dell’autore di effettuare un’analisi psicologica approfondita dei comportamenti di individui costretti per giorni a stare a stretto contatto di gomito e con la paura di essere uccisi, magari da una delle tante bombe sganciate dagli aerei russi o da un proiettile della loro artiglieria. Ora dopo ora questa umanità impaurita manifesta gli effetti di un ancestrale terrore, proprio di chi è trepidante per la sua sorte, e se queste paure alimentano una tensione che consente alla gente di sopravvivere fra delusioni e speranze, pur tuttavia piano piano porta a un’assuefazione con la morte che sradica ogni pietà. Il mondo descritto da Marai non è quello di una società proletaria, ma, tranne per pochi componenti, è proprio della borghesia, avida e al tempo stesso pavida, una società che si trascina ora rassegnata, ora esasperata, ma che comunque non perde le sue caratteristiche distintive, in cui ognuno manifesta condiscendenza per ribadire il suo status, la sua superiorità. Eppure, nel trascorrere dei giorni, pigiati l’uno accanto all’altro, costretti nel fetore delle latrine comuni, poco a poco si allentano i freni inibitori, si appassisce, si diventa inerti come pecore rassegnate nell’imminenza della macellazione. E invece arriverà la liberazione, tanto agognata, tanto sognata, un istante di gioia e poi riprendono gli incubi, perché finita un’epoca se ne apre un’altra che ancora non è possibile conoscere. Sandor Marai ha ultimato la stesura di questo romanzo nel settembre del 1945, quando già da non pochi mesi la città era sotto l’occupazione sovietica e aveva sicuramente capito che questa opprimente presenza, se pur sotto altre vesti, si sarebbe protratta a lungo, fino a una nuova liberazione, con le inevitabili incertezze sul dopo.
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Ezio - Giorgio Ravegnani
Verso la fine del IV secolo l’impero romano è ancora molto grande, si estende su un territorio enorme, ma, se può sembrare forte e potente, cela invece una fragilità pronta ad apparire al momento più propizio, insomma è quello che si potrebbe definire un colosso dai piedi di argilla. Sono ormai diversi secoli che i barbari premono alle frontiere, un po’ desiderosi di mettere le mani sulle ricchezze del grande stato, un po’ per fuggire altri popoli predatori che, nella loro espansione, seminano solo morte e distruzione. Un tempo l’esercito romano era forte e pressochè invincibile, ma ora, ridotto nei ranghi, composto in larga parte da quegli stessi barbari, non è monolitico come potrebbe apparire, ha perso molto della sua razionale ed efficiente organizzazione dopo le riforme militari avviate da Diocleziano e perfezionate da Costantino. Piano piano l’impero viene eroso, ma è con la grande battaglia di Adrianopoli del 9 agosto 378 in cui i Romani, sconfitti dai Visigoti, con l’uccisione anche dell’imperatore d’oriente Valente, che le sorti di quello che è stata la più grande e duratura potenza nella storia dell’umanità cominciano a evolvere in senso negativo. Si potrebbe dire che questa battaglia segna l’inizio della fine, anche se seguirono altre battaglie con esiti più favorevoli per i romani, soprattutto grazie a un loro grande generale, di cui poco sappiamo e che è stato oggetto di uno studio da parte dello storico Giorgio Ravegnani. Ezio, anzi per la precisione Flavio Ezio, vissuto dal 390 circa al 454, è il suo nome, un uomo che aveva lo stampo dell’antico romano, impregnato di un alto senso dello stato e dalle indubbie capacità di stratega, dapprima alleato con gli Unni e poi loro acerrimo nemico al punto che li sconfisse, sbaragliandoli, nella famosa battaglia dei Campi Catalaunici, nella regione dello Champagne, avvenuta il 20 settembre 451, ma secondo altri studiosi esattamente tre mesi prima. Trascorsero tre anni ed Ezio moriva, assassinato dall’imperatore Valentiniano III, timoroso per l’ascendente del suo generale. Quella dei Campi Catalaunici fu probabilmente l’ultima grande battaglia vinta dai romani, un vero e proprio canto del cigno. L’aver tolto di mezzo l’unico uomo che per le sue capacità avrebbe potuto difendere l’impero fu un errore madornale, come se Valentiniano si fosse tagliato la mano destra con quella sinistra, e, secondo la tesi dell’autore, consentì di fatto i successivi colpi deleteri sferrati dai nemici di Roma, nemici che avrebbero potuto essere facilmente ostacolati se Ezio fosse rimasto in vita. Di certo la sorte dell’impero era segnata, perché la genesi di uno stato contempla che quando questo si è avviato lungo la parabola discendente questa caduta non può essere fermata, ma al massimo solo rallentata. E appunto Ezio avrebbe spostato in là, di quanti anni non è possibile sapere, la fine di Roma. Ezio è un interessante saggio storico su un personaggio meno conosciuto di altri grandi condottieri romani, ma non non meno valido e pertanto degno della massima considerazione. RENZO MONTAGNOLI - 5 anni fa |
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Caporetto - Alessandro Barbero
Credo che sia difficile trovare un evento nella ancor pur breve storia dell’Italia che abbia colpito il nostro popolo in modo così evidente, al punto di definire ogni risultato particolarmente negativo come “una Caporetto”. Del resto, in quelle giornate di fine ottobre del 1917 poco ci mancò perché le truppe tedesche e austriache arrivassero a dilagare nella pianura padana, determinando di fatto la fine del nostro stato.
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La battaglia - Alessandro Barbero
“Spero di non vedere più un’altra battaglia: questa è stata troppo scioccante. È troppo vedere uomini così valorosi, così degni gli uni degli altri, che si tagliano a pezzi in quel modo.” (Sir Arthur Wellesley, I Duca di Wellington) Come è riportato in tutti i testi scolastici la battaglia di Waterloo, combattuta il 18 giugno 1815 fra le truppe francesi e quelle inglesi e dei loro alleati prussiani, si concluse con la sconfitta dei primi e sancì la definitiva uscita di scena di Napoleone Bonaparte, condannato a una sorta di esilio-prigione nella sperduta isola di Sant’Elena. La vittoria, che dapprima sembrava arridere a l’Armée du Nord, fini invece per essere ottenuta dai suoi avversari grazie all’improvvisa comparsa sul campo di battaglia dell’esercito prussiano. Di questo grande e sanguinoso evento bellico parla lo storico Alessandro Barbero in La battaglia Storia di Waterloo. Come è sua abitudine nel ricercare la maggior completezza d’informazione scrive del prima, del durante e del dopo, fornendo tutti i possibili dati per meglio comprendere il significato di questo scontro. E lo fa con pazienza certosina, elencando per esempio le forze in campo, suddivise per stati partecipanti, il loro armamento, le loro divise, la struttura logistica, le tecniche di battaglia a cui erano addestrati, non trascurando le figure dei comandati in capo, come Napoleone Bonaparte per i francesi, il duca di Wellington per gli inglesi e il feldmaresciallo von Blucher per i prussiani.
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Un eroe del nostro tempo - Vasco Pratolini
L’anno è il 1945 ed è da poco che è avvenuta la Liberazione; la vita è difficile, c’è un’Italia da ricostruire anche nel suo tessuto sociale, perché la lunga guerra, il periodo della Resistenza, con il conflitto civile, si sono chiusi ufficialmente il 25 aprile, ma gli strascici sono ben lontani dallo scomparire. E’ così che in un appartamento di Firenze sono costretti a convivere Faliero e Bruna, marito e moglie comunisti ex partigiani, il sedicenne fascista Sandrino con la madre succube Lucia, e Virginia, una bella donna, vedova di un ex repubblichino. In questa forzata coabitazione è rappresentata l’Italia post bellica, con i suoi drammi e anche le sue speranze, ma non è questa la chiave di lettura del romanzo di Pratolini, o meglio non è l’unica, perché protagonista assoluto è forse quello che non ti aspetti, il ragazzino, fascista fino al midollo e che come tale si comporta, violento con i deboli e pavido con i forti, un ritratto eseguito in modo perfetto. Sandrino approfitta della condiscendenza della madre, attrae a sé la debole Virginia, prima succube del padre, poi del marito repubblichino e ora infine di quel ragazzo che dimostra qualche anno in più della sua effettiva età. Con brutalità la fa sua, la tormenta, le sottrae i soldi, e più dimostra la sua intima cattiveria, più viene adorato da una donna che ha forti tendenze masochiste. Faliero, a cui dispiace vedere un giovane, se pur nemico, prendere una strada senza ritorno cerca di ricondurre alla ragione Sandrino, ma è tutto inutile, perché logica e sentimento, che danno smalto a una persona, sono del tutto sconosciute nel ragazzo, che con la vocazione a una progressiva e totale disumanizzazione si avvia senza accorgersi a un percorso di eccessi convulsi che lo porteranno all’autodistruzione. Senza che Faliero e Bruna appaiano degli eroi viene evidenziata la differenza nel vivere rispetto a Sandrino, con il quieto rapporto di due persone in cui l’amore, quello fatto di sentimento e di dedizione, riesce a colmare qualsiasi dissidio, fortifica l’ideale politico, lascia sempre aperta una porta alla speranza. Nel ragazzo invece c’è una sorte annunciata dall’assenza di autentici sentimenti, di un amore non nel suo più alto significato, una specie di amore senza amore; c’è invece una compulsione che lo porta a torturare, non solo psicologicamente, chi gli offre il suo amore, sia che si tratti di quello materno di Lucia, sia che appaia come la disperata passione di Virginia.
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La boutique del mistero - Dino Buzzati
Inizio subito con il precisare che è ben difficile trovare fra questi 31 racconti uno che sia di modesta levatura, perché, caso più unico che raro, oltre a essere di piacevole lettura, sono tutti di qualità. Se non ci sono punti di contatto fra gli stessi, tutti però sono improntati dall’autore al genere surreale, non frequente, di non facile realizzazione e quindi, dato il loro livello, ancora più apprezzabili. Ben lungi dall’idea di parlare di ognuno di essi desidero solo dare alcuni cenni affinché si possa comprendere di che si tratta.
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Il duca di Sabbioneta - Luca Sarzi Amadè
Vespasiano I Gonzaga nacque a Fondi il 6 dicembre 1531 da Isabella Colonna e da Luigi Gonzaga “Rodomonte” . Rimasto giovanissimo orfano del padre, la madre si sposò con il principe di Sulmona, rinunciando a crescere il figlio che, grazie all’interessamento del nonno Lodovico presso l’imperatore, fu affidato alla zia paterna Giulia Gonzaga che lo allevò amorevolmente e che, anche per evitare al nipote di essere eliminato dai Colonna per questioni successorie, lo inviò alla corte di Carlo V d’Asburgo, dove fu nominato paggio d’onore del futuro re Filippo II. Grande condottiero, abilissimo diplomatico, fece una rapida e notevole carriera, investito direttamente dall’imperatore Massililiano II del titolo di principe del Sacro Romano Impero. Gli onori di certo non gli mancarono, come i titoli e gli appannaggi: Grande di Spagna, vicere di Navarra e di Valencia, marchese e poi duca di Sabbioneta, un feudo del mantovano sempre rimasto indipendente dal ramo principale dei Gonzaga, cavaliere dell’ordine del Toson d’Oro. Ma il capolavoro della sua vita, di cui restano ancor oggi le preziose testimonianze, fu l’aver ideato e realizzato la città ideale: Sabbioneta. Gli ci vollero trentacinque anni, dal 1556 alla sua morte, avvenuta il 26 febbraio 1591, ma alla fine lo scrigno di bellezza si aprì agli occhi del mondo, mostrando i suoi gioielli, che ancor oggi sono meta di un flusso consistente di turisti. I suoi feudi comprendevano, oltre a Sabbioneta, il marchesato di Ostiano, la contea di Rodigo, le Signorie di Bozzolo, Rivarolo Mantovano e Commessaggio, il ducato di Trajetto, la contea di Fondi, la baronia di Angiona, le Signorie di Turino e Caramanico. Andarono tutti alla figlia Isabella (l’unico maschio, Luigi, era morto quattordicenne) che li portò in dote al marito Luigi Carafa della Stadera, principe di Stigliano. Vespasiano fu indubbiamente un grande protagonista della sua epoca, ma l’aver realizzato la città ideale, che tutti possiamo vedere, costituisce senz’altro il suo più grande merito.
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Stoner - John Williams
Di questo libro ne avevo sentito parlare da tanti e sempre con giudizi ampiamente positivi, anzi entusiastici, tanto da fa supporre che fosse nata una Stonermania. Eppure, quando il romanzo fu pubblicato nel 1965 non ottenne molto successo, anzi finì con il diventare una delle tante opere che ogni anno vengono date alle stampe e che è già molto se ha un volume di vendite discreto; infatti, il titolo ben presto finì fuori catalogo. Fu in occasione della sua ripubblicazione nel 2003 che incominciò a incontrare i favori di un numero sempre più ampio di lettori che parlandone sui social network contribuirono in modo determinante a una sua ampia diffusione. Cosa era cambiato per fare diventare best seller un libro che quasi quarant’anni prima aveva incontrato solo tiepidi favori e quale era il motivo del suo travolgente successo? Era subentrata una nuova generazione di lettori, di gente che nel soffocante neoliberismo aveva cominciato a chiedersi quale era il senso della vita, insoddisfatta dai proclami secondo i quali ogni uomo è artefice di se stesso, desiderosa di trovare una verità che, per quanto non auspicabile al massimo grado, era però la premessa indispensabile per porsi le domande che il materialismo aveva soffocato: chi sono, cosa faccio, dove vado, posso ribellarmi al destino? In questo senso la figura di William Stoner, questo figlio di agricoltori che hanno lottato sempre e solo per sopravvivere, portati ad accettare la loro condizione con rassegnazione, si identificava e si identifica con quella di un uomo qualunque, come la sua vita è una vita qualunque, senza gesta memorabili, senza eroismi, insomma una vita come quella che è propria di ognuno di noi.
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Vincoli - Kent Haruf
Corrono circa trent’anni (dal 1984 al 2015) fra le pubblicazioni di Vincoli e di Le nostre anime di notte, quest’ultimo uscito postumo, e in questo lasso di tempo sono stati dati alle stampe anche Canto della pianura, Crepuscolo e Benedizione, romanzi tutti ambientati a Holt, una cittadina americana del tutto immaginaria, ma simile a tante altre a vocazione prettamente agricola. Lo stile scarno, ma non povero rimane sostanzialmente uguale, quello stile che non poco ha contribuito al successo e alla fama di Kent Haruf; non si può infatti rimanere insensibili di fronte all’immediatezza della comprensione di ciò che è scritto, un mezzo per esprimere passioni proprie del genere umano, capaci, grazie a trame ben congegnate, di avvincere dalla prima all’ultima riga. Eppure il narratore americano non è che arzigogoli pensieri particolarmente complessi, rivelando analisi delle personalità in modo determinante, no, senza troppe complicazioni ci porta a conoscere i suoi personaggi sia nella loro esteriorità sia all’interno del loro animo. Risulta, quindi, una lettura facile, gradevole e avvincente ed è questo che ha determinato il successo di Haruf, conosciuto in Italia solo da poco tempo e grazie all’editore NN. Vincoli ci introduce per la prima volta a Holt e lo fa quasi alle sue origini, alla fine del XIX secolo, allorché i pellirosse che lì vivevano prima dei coloni bianchi avevano lasciato quelle terre aride da circa una ventina di anni. La storia che ci viene narrata è quella di famiglie i cui terreni agricoli sono confinanti, ma è anche la storia di un grande amore che la grettezza di un padre padrone ha troncato, rendendo infelici i suoi due figli e il figlio dei vicini. La vicenda è narrata da Sanders Roscoe, un uomo che non è stato vittima di questo amore ostacolato, ma che ne è perfettamente a conoscenza, essendo il figlio di uno degli interessati e ciò che più sorprende è l’affetto che poco a poco cresce in lui per quella che avrebbe potuto essere sua madre e non lo è stata, un affetto che è quasi infatuazione e che rischia di diventare amore, nonostante una trentina di anni di differenza. A Holt, in questo microcosmo quasi sperduto nelle grandi pianure americane, si nasce, si vive e si muore, come in ogni parte del mondo, ma anche si ama o si odia, come appunto in ogni altra parte del mondo. E allora che cosa c’è di tanto interessante per apprezzare e amare i romanzi di Haruf? C’è la dolcezza e la pietà, a seconda dei casi, con cui Haruf anima i suoi personaggi, con cui descrive le loro passioni, i loro pregi e i loro difetti, ma senza giudicare, perché sembra dirci che la vita è così, quella vita di cui anche noi siamo parte con le nostre virtù e le nostre pecche. E per quanto lo stile sia semplice e scarno, a tratti è venato da un alone di poesia, capace di stemperare tragedie e di infondere speranze, così che i protagonisti non compaiono per ritirarsi poi come ombre, ma entrano in noi. Come sono possibili da dimenticare il padre padrone Roy Goodnough che agita i suoi moncherini, il figlio Lyman un po’ ritardato e succube, la dolce figlia Edith, una vittima sacrificale, il suo mancato sposo John Roscoe e l’io narrante Sanders Roscoe? No, ognuno immaginandoseli a modo suo se li ricorderà ogni volta che andando in campagna vedrà qualcuno che ara la terra, qualcun altro che porta le mucche al pascolo o una donna che dà il becchime alle galline. Perché? Perché sono personaggi di fantasia, ma che sembrano veri, nel senso che si ha la sensazione che siano esistiti veramente e che, prima o poi, altri come loro si possano incontrare.
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