|
Thread |
Order:
Relevance |
Date |
Title
|
RSS Feed
|
La grande caccia - Ben Pastor
Continuano le avventure di Elio Sparziano, con un nuovo episodio, che, se non vado errato, è il quinto della serie. Questa volta è incaricato dall’imperatore Galerio di trovare un tesoro; si tratta dell’oro dei Maccabei e proprio per questo motivo lo storico, nonché soldato, percorre le strade della Palestina del IV secolo d.C., incontrando località che sembrano uscite dalle pagine dei Vangeli. Al riguardo l’abilità di Ben Pastor, nelle accurate descrizioni e ambientazioni, è a dir poco straordinaria; si respira proprio un’aria di altri tempi e non ci si meraviglierebbe di incontrare colui che fu chiamato il Messia, all’epoca non più su questa terra da circa quattro secoli.
In ogni caso ci troviamo di fronte come sempre a un thriller, che è stato abilmente confezionato, come del resto i precedenti. Se lo scopo di questa nuova missione è la ricerca del tesoro, ufficialmente invece Elio Sparziano è lì in Palestina per censire i cristiani e riconvertirli alla religione ufficiale. Già i due incarichi si presentano complessi, ma c’è un’ulteriore difficoltà, perché al tesoro dei Maccabei mira anche Costantino, notoriamente ambizioso e pronto a succedere sul trono. C’è quindi la concorrenza di Elena, madre appunto di Costantino, femme fatale e priva di scrupoli, che sta brigando non poco per arrivare per prima a mettere le mani sull’oro. Ed è proprio la ricchezza e il desiderio di impadronirsene il motore di questa storia, punteggiata di morti misteriose e in cui sono presenti inganni, ma anche fedeltà, nonché il coraggio di chi è disinteressato, ma opera per l’imperatore, sempre al servizio di Roma.
Non vado oltre, un po’ perché la vicenda è particolarmente intricata e correrei il rischio di dovermi dilungare eccessivamente, un po’ perché privare il lettore del piacere della scoperta significherebbe attenuare l’attrazione del libro, che non è poca, anzi è notevole. Se la Terra Santa è descritta con abilità, se sembra di essere spesso presenti alla vicenda, elementi ovviamente positivi e qualità proprie di Ben Pastor, tuttavia devo lamentare una certa lunghezza; 664 pagine infatti non sono certo poche ed è pressoché impossibile mantenere un ritmo costante così a lungo, tanto che a volte, magari per una certa pedanteria nel parlare di un panorama o nel descrivere anche usi e costumi, si viene a instaurare una certa pesantezza che, senza nulla togliere al piacere della lettura, tuttavia induce a fare in fretta, quasi a sorvolare su alcune pagine. Per farla breve, forse sarebbe stato meglio se l’opera fosse risultata meno corposa, perché la gradevolezza sarebbe risultata senz’altro superiore.
RENZO MONTAGNOLI - 9 mesi fa
|
Schiavi di Hitler - Mimmo Franzinelli
L’armistizio dell’8 settembre 1943 da un lato pose fine al conflitto fra le truppe alleate e quelle italiane, ma dall’altro determinò la tragedia dell’occupazione tedesca e della guerra civile con la nascita della Repubblica di Salò. Si è sempre messo in risalto, giustamente peraltro, il movimento partigiano, un fenomeno di grande rilevanza a livello europeo e che indubbiamente diede il suo contributo, non trascurabile, alla vittoria degli anglo americani, mentre, pur riconoscendone l’importanza, non è stato a lungo attribuito il giusto merito ai tanti soldati italiani catturati dai nazisti e rinchiusi nei lager tedeschi. Ebbene, nonostante che a essi (all’incirca 750 mila) fosse offerta l’opportunità di arruolarsi nell’esercito tedesco, di far parte del nascente apparato militare fascista, oppure di diventare lavoratori volontari, solo una minoranza aderì. Gli altri, una maggioranza schiacciante, per quanto debilitati dalla fame, dalla pressoché totale assenza di cure mediche e dai vincoli della restrizione, tanto più evidenti ove si consideri che non furono trattati come militari prigionieri – e questo come ritorsione per il maldestro tradimento del re e di Badoglio – non accettarono e in una sorta di reazione necessariamente senza armi non intesero collaborare per portare vantaggi allo stato nazista. Molti morirono, altri contrassero malattie che li segnò per il resto della loro vita, ma questa torma di scheletri cenciosi diede una dimostrazione di resistenza passiva quale non si ebbe modo di vedere in tutto quel conflitto. Non bastarono le lusinghe, come gente che pranzava lautamente davanti agli affamati, né furono sufficienti le minacce, così che in un atteggiamo non certo preorganizzato, bensì spontaneo, gli internati militari italiani diedero prova di grande coesione, nonché, soprattutto, di una maturità impensabile per gente che era stata allevata a “libro e moschetto”.
Quindi mi sembra che parlare di loro sia un valido modo non solo per portare a conoscenza dei posteri il valore del loro grande gesto, ma anche per tributare in tal modo il riconoscimento che è più che doveroso; furono partigiani senza armi, esseri umani che non si piegarono, un fulgido esempio di eroismo silenzioso. Mimmo Franzinelli ha fatto bene a scriverne con questo libro dove riporta tutto, proprio tutto, dall’armistizio allo sfacelo del Regio Esercito, dalle catture dei nostri militari in Italia e nelle zone di occupazione all’impatto con il Lager, dal collaborazionismo alla totale impunità degli aguzzini degli IMI (Internati militari italiani), insomma non si tratta di un volume in cui ci si limita a fornire qualche notizia, restando in superficie, perché quando necessario, e la cosa è frequente, l’autore va in profondità. Non manca, come si addice a uno storico, l’elenco delle fonti ed è possibile trovare perfino un piccolo corredo fotografico inerente la vita concentrazionaria, oltre a testimonianze scritte, come i diari di prigionia. Di conseguenza si riesce ad avere un quadro ampio e preciso di quel che fu un’autentica tragedia, attese le sofferenze patite, a dispetto delle false notizie diffuse in Italia dalla Repubblica di Salò, secondo le quali i nostri militari internati sembrava dovessero trovarsi in villeggiatura.
Purtroppo, come è abitudine consolidata nel nostro paese, questi coraggiosi soldati non hanno avuto il riconoscimento dell’importanza del loro gesto, e questo nonostante i reduci si siano resi parte attiva; quindi il libro di Franzinelli, unitamente ad altri che hanno parlato solo abbastanza recentemente dell’argomento, ha il grande merito di aver sollevato la polvere di un tempo, che è trascorso tacendo ai posteri fatti della nostra storia di rilevantissima importanza, come è proprio questo.
Da leggere, senz’altro.
RENZO MONTAGNOLI - 9 mesi fa
|
La Resistenza delle donne - Benedetta Tobagi
Sono state almeno settantamila le donne che hanno partecipato, in diversi ruoli, alla Resistenza; benché il numero sembri elevato, non è gran cosa se rapportato alla popolazione femminile dell’epoca, ma, come rilevato nel saggio di Benedetta Tobagi intitolato La Resistenza delle donne, queste furono senz’altro di più se vi si ricomprendono le centinaia di migliaia che nei giorni immediatamente successivi alla dichiarazione d’armistizio dell’8 settembre 1943 si adoperarono, spesso con grave rischio per la loro vita, a soccorrere i nostri soldati fuggiaschi, fornendo loro gli indispensabili abiti civili. Quest’ultimo fenomeno è quasi sempre trascurato, ma è di notevole importanza, perché in tal modo molti nostri militari evitarono la cattura e la deportazione, andando poi spesso a ingrossare le file dei partigiani; c’è da rilevare, inoltre, che fu un comportamento spontaneo, che non vi fu nulla di organizzato, dato tanto più rilevante ove si consideri che l’Italia era già stremata dalla guerra e che le donne italiane erano più condizionate degli uomini nell’assumere decisioni, e non solo per l’indottrinamento fascista, ma anche per una radicata convinzione di subalternità, frutto di una mentalità maschilista e di una visione ecclesiastica tendenti a ritenere la femmina inferiore al maschio.
Di libri che spiegano il fenomeno della Resistenza, le sue origini, le sue caratteristiche con rigore scientifico non ce ne sono molti e quindi non si può che plaudire a questo saggio della Tobagi anche se è limitato alla figura femminile, che però fu di non poca importanza. La maggior parte delle donne svolgevano il lavoro di staffetta, portavano giornali antifascisti, opuscoli, armi, munizioni, esplosivi, passando per i posti di blocco e non poche furono scoperte, arrestate, sottoposte a sevizie, fucilate oppure inviate nei lager in Germania. Se per un uomo la cattura voleva dire tortura certa e forse anche la morte, per le donne purtroppo quasi sempre c’era lo stupro, un’esperienza che segnò per sempre le vittime, le cui superstiti spesso non osarono raccontarlo nel dopo guerra vista la mentalità vigente soprattutto allora e che additava quasi al pubblico rimprovero la femmina disonorata.
Benedetta Tobagi per la stesura del libro si è avvalsa di interviste, di fotografie reperite negli archivi, di testimonianze di terzi, arrivando a completare un grande quadro che vede le donne protagoniste, riuscendo perfino a parlare di alcune che, per indubbie capacità, finirono con il comandare dei reparti misti, o di soli uomini, un che di impensabile in un paese che riconobbe al sesso femminile il diritto di voto solo nel 1946.
Risulta così un quadro abbastanza completo relativamente alla presenza e all’importanza delle donne nella resistenza, con una narrazione che a volte presenta la tipicità del saggio storico, mentre in altre sembra lasciare un certo spazio alla creatività pur partendo da dati effettivi; questo dualismo non nuoce all’opera, anzi è in grado di rendere snella la scrittura, a tutto beneficio di chi legge. Tuttavia, Benedetta Tobagi qualche volta si lascia prendere la mano e appare ripetitiva, circostanza che rende noiose alcune pagine e finisce con il distogliere l’attenzione.
Nel complesso l’opera appare meritevole di lettura e in questo senso penso che il riconoscimento che ha avuto con il Premio Campiello 2023 sia meritato.
RENZO MONTAGNOLI - 10 mesi fa
|
La casa di Giulio Romano - Edgarda Ferri
Edgarda Ferri ha la straordinaria abilità di far rivivere i personaggi di cui scrive la biografia; che si tratti di Letizia Bonaparte, la madre di Napoleone, o di Baldassarre Castiglione, il fine diplomatico dei Gonzaga, emergono prepotenti dalle righe, si delineano davanti ai nostri occhi, tanto da apparire presenti, quasi figure che prendono corpo poco a poco accanto a noi. E’ anche questo il caso di Giulio Pippi, detto Romano, il più capace allievo di Raffaello Sanzio, che da Roma, aderendo all’invito di Federico Gonzaga, si recò a Mantova, città che lui abbellirà e che divenne la sua nuova patria, coniugandosi con una mantovana e lì dimorando in una casa, tuttora esistente e di proprietà privata, costatagli mille scudi d’oro, come nelle prime pagine dice a Giorgio Vasari giunto nella città lombarda per prendere appunti per il suo libro “Le vite dei più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani” e fra questi artisti non poteva mancare il più grande, proprio lui Giulio Romano.
Per un genio come il prediletto fra gli allievi di Raffaello il periodo mantovano fu il più fecondo della sua esistenza, con la possibilità di concretizzare il suo grande genio creativo, in un flusso continuo di idee che derivava anche dalla comunione con il carattere del Signore di Mantova, tutto teso alla ricerca del bello. Ed è così che nacque dalle vecchie scuderie il palazzo di rappresentanza, ma anche luogo d’amore con l’amante Isabella Boschetti; il Te, così verrà chiamato prendendo il nome dall’isola, poi resa unica con la terraferma, su cui fu eretto, da un lato è l’emblema di una signoria che vuole distinguersi non tanto per la potenza quanto invece per l’amore per le arti, dall’altro è un laboratorio in cui Giulio Romano dà sfogo alla sua creatività, realizzando, con l’aiuto dei pittori della sua scuola, affreschi di una bellezza incredibile, quali la celeberrima sala dei Giganti. Indubbiamente Federico II molto aveva preso dalla madre Isabella d’Este in ordine alla passione per le arti, con la differenza che aveva un carattere più impetuoso che riflessivo, e così s’imbarcava in imprese piuttosto onerose, tanto che per le tasse i mantovani si immiserirono; in particolare una grande uscita di denaro ci fu per i festeggiamenti per la venuta dell’imperatore Carlo V, festeggiamenti organizzati e realizzati ovviamente da Giulio Romano, che alla morte del suo amato duca, avvenuta nel 1540 per colpa del “mal francese”, ebbe l’intenzione di tornarsene a Roma, ma trovò la ferma opposizione del reggente, il cardinale Ercole Gonzaga, che continuò a commissionargli lavori senza discutere sul prezzo, analogamente a quanto aveva fatto il fratello Federico II.
Impreziosito da numerose fotografie delle opere realizzate dall’architetto e pittore romano, il libro, anche per il numero ridotto di pagine, si legge velocemente e con grande piacere, consentendo un’escursione in un mondo lontano i cui monumenti testimoniano la grandezza di una casata ormai estinta.
RENZO MONTAGNOLI - 10 mesi fa
|
Venezia prima di Venezia - Giorgio Ravegnani
Credo che chiunque abbia un minimo di curiosità storica ami conoscere l’origine del paese o città in cui abita, radici che possono aiutare a capire molte cose, dalla toponomastica al carattere di chi vi risiede. Se poi questa località è Venezia, splendida e misteriosa al contempo, unica nel suo genere, il desiderio di conoscenza diventa una necessità. Fu un piccolo nucleo sorto su un’isoletta della laguna e poi nei secoli allargato? Fu una serie di piccoli insediamenti poi coalizzatisi? Le possibilità sono tante, ma mai come in questo caso appare difficile una risposta certa; ne è ben consapevole Giorgio Ravegnani che con questo interessantissimo saggio cerca, tra tante ipotesi, di trovare quella che più dovrebbe avvicinarsi alla verità. Fra le molte supposizioni si sa per certo che Venezia nacque Bizantina e tale rimase a lungo, anche se il mito, sempre presente soprattutto quando c’è un alone di mistero, dice che fu fondata in un luogo deserto, sabbioso e paludoso, all’epoca dell’invasione di Attila quando gli Unni invasero la terraferma e distrussero Aquileia. Non credo mai in toto alle leggende, ma non mi nascondo che quasi sempre hanno un fondo di verità, e quindi non è improbabile che primi nuclei di uomini si siano insediati in laguna per sfuggire ai pericoli di invasioni barbariche, fra mille difficoltà date anche dall’insalubrità dei luoghi. Tuttavia Venezia era già conosciuta in epoca romana, tanto che Ravegnani ha scritto in proposito un capitolo, il primo. Nel secondo tuttavia c’è già l’incontro con i bizantini, in una successione temporale logica, ma è nel terzo capitolo che più diffusamente si parla delle origini, con le diverse fonti che vanno dalla fondazione al sorgere di leggende quale quella relativa alla traslazione del corpo di San Marco, patrono della città. Tuttavia Venezia non è ancora una città sul mare, ma in riva al mare e diventerà con le caratteristiche odierne solo dallo scontro fra Bizantini e Longobardi che costringerà gli inermi veneziani a trovare scampo dentro la laguna.
Nei due capitoli successivi segue l’evoluzione della città bizantina, fino all’indipendenza, svincolandosi da Bisanzio senza tuttavia una rottura netta, grazie a vari trattati militari e commerciali siglati allo scopo; i patti però non hanno durata illimitata, tanto che nel 1202 con l’inizio della quarta crociata, a cui Venezia partecipa attivamente, Bisanzio finisce con il diventare un nemico e già nel 1204 c’è la caduta di Costantinopoli.
Ravegnani è indubbiamente pragmatico, il mito figura nella narrazione a puro titolo di conoscenza, pur senza respingerlo in toto, visto appunto che quasi sempre presenta un fondo di verità. Ed è una storia lunga, è quella di alcune isole lagunari già abitate in epoca romana, successivamente pervenute a costituire un’unica entità che poi sarebbe diventata per diversi secoli la più grande potenza navale dell’Adriatico e dell’Egeo e che oggi con i suoi canali e i suoi edifici storici incanta il mondo.
RENZO MONTAGNOLI - 10 mesi fa
|
I delitti della salina - Francesco Abate
Molti credono che sia facile scrivere un romanzo giallo, ma non è così; a parte che già è difficile scrivere bene, i fondamenti di un poliziesco (il delitto, le indagini, la soluzione del caso) devono essere ben studiati per non incorrere in esiti (leggasi scoperta del colpevole o dei colpevoli) campati in aria. Da un po’ di tempo poi c’è l’abitudine dei narratori di scrivere romanzi dove la trama gialla è solo un pretesto, una sorta di impalcatura intorno alla quale parlare di ben altro, ma se in tal caso la vicenda poliziesca può anche essere esile, tuttavia deve presentare aspetti di logicità. Inoltre, predominante è la ricerca di un protagonista che risulti azzeccato, gradito al pubblico dei lettori.
Francesco Abate, quando ha scritto I delitti delle saline, deve aver tenuto a mente agli inizi questi aspetti fondamentali, ma poi, complice una struttura “pericolante”, li ha persi per strada. Eppure l’ambientazione particolare in una città come Cagliari agli inizi del secolo scorso, una protagonista femminile, Clara Simon, una mezzosangue, in quanto figlia di una cinese, morta nel darla alla luce, e di un capitano sardo, disperso nel corso della rivolta dei boxer, una donna indomita che brama fare la giornalista, nonostante gli ostacoli posti da una società maschilista, la scomparsa di tanti poveri bambini, degli sciuscià, sono tutti elementi che facevano ben sperare. Vero è che il ritmo, peraltro discontinuo, risulta anche troppo blando, ma mano mano andavo avanti con la lettura mi sono incuriosito non poco di queste misteriose sparizioni, con due piccoli che saranno ritrovati cadaveri, peraltro di morte non violenta.
Giunto a metà, però, ho cominciato a insospettirmi, perché l’autore si è messo a tirare un po’ troppo la corda, e mi sono detto che speravo solo che non finisse tutto in una bolla di sapone.
Finalmente nelle ultime pagine si è arrivati alla soluzione, ma purtroppo, come si suol dire, è cascato l’asino. In un combattimento con contrabbandieri realizzato in modo ben poco interessante si è innestata una vicenda da diabolico dottor Mabuse, con lo scienziato pazzo che ha modo di mostrare la sua follia in un ambiente che ricorda i film horror.
Insomma, la conclusione non solo non sta in piedi, ma è mal realizzata.
Forse Francesco Abate sarà anche capace di scrivere un poliziesco, ma questa volta ha toppato alla grande.
RENZO MONTAGNOLI - 10 mesi fa
|
Archangel - Robert Harris
Ogni tanto questo pur bravo autore confeziona libri non all’altezza della sua meritata fama; mi era già accaduto con Pompei e ora si ripete con Archangel.
La trama di per sé sarebbe notevolmente interessante, perché si narra di un ex professore di storia sovietica all’Università di Oxford, tale Fluke Kelso che a Mosca per un congresso incontra nella hall dell’albergo dove alloggia un veterano dell’esercito sovietico, Papu Rupava, che gli racconta una strana storia sulla morte di Stalin e di ciò che accadde quando il dittatore fu trovato in stato comatoso nella sua residenza di campagna. Ciò che gli dice è una di quelle rivelazioni in grado di sconvolgere non solo la vita di una nazione come la Russia, ma addirittura gli equilibri mondiali. Per ovvi motivi non vado oltre e questa volta più che in passato ho preferito iniziare il commento critico solo con un breve accenno alla trama.
La vicenda è particolarmente intricata e il lettore deve stare molto attento, dovendo anche a volte ritornare a qualche pagina precedente, tanto più che il thriller, perché di thriller si tratta, stenta a decollare e prende quota dopo un avvio piuttosto laborioso e lento, quasi che il romanzo fosse stato scritto da certi autori russi noti anche per la grevità delle loro opere. Peraltro si apprezza la capacità di rendere l’atmosfera opprimente di un paese che, uscito dalla dittatura sovietica, ha mantenuto tuttavia inalterata la sua struttura dominante sui suoi cittadini. Come in un recente passato gli agenti del KGB sono onnipresenti e si avverte chiara la sensazione di essere sorvegliati, di trovarsi in una gigantesca macchina dove la propria libertà è un valore ancora lontano da raggiungere.
Dicevo del thriller ed è così, fra furti di quaderni, ammazzamenti, una tensione spasmodica per avere completa contezza di un evento accaduto tanti anni prima (la morte di Stalin senza lasciare eredi, o forse no...), le manifestazioni dei nostalgici, insomma tanta carne al fuoco nella pericolosa ricerca della verità che Fluke Elso antepone a tutto.
Non è certo il miglior libro scritto da Harris, anche se, superata la lentezza dei primi capitoli, è in grado di assicurare al lettore il giusto divertimento. Fra l’altro dal romanzo è stato tratto un film nel 2005 diretto da Jon Jones e interpretato da Daniel Craig, noto per aver avuto il ruolo di James Bond in cinque pellicole. Non ho visto il film e quindi nulla posso dire in proposito, anche se pare non abbia incontrato un grande successo.
Comunque il romanzo ha un merito particolare, che emerge nel finale in verità un po’ troppo fantasioso, e cioè che il popolo russo è stato sempre talmente dominato dai suoi capi - di volta in volta lo zar, Stalin e a seguire gli altri - da avere la necessità di essere condotto per mano da un uomo forte, indipendentemente dalle sue effettive qualità, anzi ammirato e osannato tanto più il suo comportamento è da despota.
RENZO MONTAGNOLI - 10 mesi fa
|
Nella grande pianura - Umberto Bellintani
Sarà forse un caso, ma in questa piatta pianura, vicino a un corso d’acqua di grande rilievo come il Po, secoli fa nacque un poeta che con la sua prima opera, Bucoliche, cantò di questa natura, ubertosa anche per l’abbondanza d’acqua del grande fiume e dei suoi affluenti; ebbene, dopo tanto tempo, e questa volta mi riferisco al secolo appena trascorso, è nato un altro artista che con i suoi versi rivela le stesse sensazioni ed emozioni. Diverso è lo stile, completamente difforme è la struttura, ma lo spirito che dà vita all’idea, che nobilita la creatività accomuna Umberto Bellintani a Publio Virgilio Marone. Entrambi hanno visto la luce fra due fiumi, per Bellintani il Po e il suo affluente Secchia, per Virgilio sempre il Po e il suo affluente Mincio.
Sono coincidenze che appaiono tanto più particolari ove si guardi al loro grande amore per la natura; ci troviamo quindi di fronte a poeti territoriali, benché Virgilio risulti indubbiamente padrone di una universalità, rara e e avvincente come poche, ponendosi su un altro livello, e con ciò senza togliere nulla alle indubbie qualità di Bellintani. I tramonti, con le prime ombre della sera che cala rasserenante, i lunghi silenzi, l’isolamento che consente la campagna sono tematiche che ricorrono nel poeta di San Benedetto, uomo che sente il respiro del fiume e della grande pianura e che ne reinterpreta le sensazioni che avverte il suo animo. Eppure, a fronte di tanta serenità, immancabile emerge il rapporto con la morte, lancinante ( Più d’una rete luceva sulle acque, / stillando il sole; di poi si sommergeva. / Ed era un giubilo d’allodole quando / al pescatore sotto riva emerse / il giovinetto da quel fondo, il corpo cereo. / Allora il pianto della madre ruppe in gridi / e quello muto d’altre donne dilagò / ed era greve. /….), o struggente ( Passo di viso in viso e ritrovo il fanciullo / che un crudo morbo mi tolse alla schiera / degli astuti nel gioco dei banditi. / Ha nelle mani il suo arco di robinia / ed è forato nel piede, mi conduce / sulla strada di un dolce ricordo. / / Ezio, mi senti? Sono io, / sono io qui venuto alla tua tomba / e t’ho portato un coccodrillo modellato / colle mani di allora. / / I veri amici sono morti ad uno ad uno / e chi da morte non mi chiama non ha il volto / che amavo, il volto dell’infanzia.) L’ultima poesia mi ricorda, per l’emozione che comporta, un’altra, a me particolarmente gradita, quell’Aquilone con la quale Giovanni Pascoli, nel cantare la morte giovinetto di un compagno, canta anche la morte della gioventù. Ebbene anche in Bellintani l’età, che tanti definiscono giustamente la più bella, non è vista con nostalgia o con rimpianto, ma solo come la fine definitiva di un periodo che infatti mai più potrà tornare.
Uomo di pianura, anzi della terra in cui affonda le radici per cercare se stesso, il poeta di San Benedetto è tuttavia capace di trasmettere in versi il respiro della natura, la forza arcana della stessa, in una visione arcaica che credo non abbia eguali nella poesia del secolo scorso. Però non mi si venga a dire che parla di un mondo che non c’è più, perché invece c’è ancora, all’apparenza mutato, ma il cui spirito permane, un soffio di esistenza che resiste alle barbarie umane, alle distruzioni scellerate, e che l’animo, aperto, spalancato del poeta chiaramente avverte e di cui dà contezza.
Ed ecco che allora si comprende che fil rouge ricorrente della morte non è altro che un aspetto del ciclo della vita con il quale si avvia il processo del ricordo, l’unico perché qualcosa resti di tutta un’esistenza.
Sono tante le poesie di questa raccolta, e del resto abbracciano un lunghissimo periodo di tempo, in una varietà di argomenti che se non stupisce almeno per certi aspetti sorprende. Ma su tutte è la natura che fa da padrona e ricollegandomi a quel fil rouge di cui ho accennato mi permetto di riportare l’ultima lirica, come definitive sembrerebbero le ultime volontà in essa espresse e che riassumono sì il pensiero di Bellintani, ma anche le caratteristiche di questa gente di pianura che vive accanto al grande fiume. Si intitola Anche per me quella bandiera: “ anche per me una bandiera rossa, / e un po’ di gente malvestita da Bardelle / venda da Brede, da Camatta, Pontevecchio / in bicicletta, con le brache di fustagno / lise e la vecchia mantellina di una volta. / Voglio morire d’inverno, in misura che l’uomo è sulla terra: / povera cosa, malcerta, non sicura / d’essere uno o nessuno , un topo o un gatto, / una ciabatta, un coccio nero di bottiglia / per l’altrui piede o per il proprio. / Anche per me dunque quella rossa / bandiera popolana. E in tutta fretta 7 mentre la neve sfarfalla il vento rigido / io sia calato nella fossa. Quando ritorni / alla sua casa ciascuno e all’osteria / per ricordarmi quel poco che mi basta / udirli ancora, un minuto prima che / morte completa mi abbia interamente. / Intanto dico che sarà per me un conforto / anzi una gioia sapermi con la povera / Tina Mazzali. Rammentatela. Vi prego.”.
Non credo sia necessario che aggiunga altro, perché Umberto Bellintani, come tutti i poeti, quelli grandi, deve essere solo letto, lasciandoci trascinare dal flusso di immagini e di pensieri che i suoi versì, così evocativi, sono lì in paziente attesa per essere colti.
RENZO MONTAGNOLI - 10 mesi fa
|
Guerra di spie - Mimmo Franzinelli
Libro dopo libro non posso che apprezzare sempre di più questo storico in grado di rendere avvincente una materia, non di rado ostica, come la storia; le sue capacità di strutturare nel migliore dei modi i saggi che scrive consente di leggere con piacere senza nulla togliere alla necessaria completezza e obiettività. Anche nel nel caso di “Guerra di spie. I servizi segreti fascisti, nazisti e alleati 1939 – 1943” si riesce ad avere una visione completa e per niente superficiale di un’attività sempre presente in tempo di pace, ma ancor più intensa in caso di guerra. Il periodo di osservazione è invero limitato, ovvero fino all’armistizio del 1943, con i nostri Servizi Segreti ormai incapaci di entrare in questo gioco, soprattutto dopo il 25 luglio, quando non solo viene a mancare la figura istituzionale di Mussolini, ma anche chi gli succede, Badoglio e il suo governo, sembrano e sono incapaci di condurre con abilità l’uscita dalla guerra, tutti preoccupati di non far trapelare nulla ai tedeschi, i quali invece sono ben informati.
Il saggio è impostato logicamente in capitoli che non sono slegati fra loro, grazie all’ordine in cui sono esposti. Nel primo Franzinelli parla esaurientemente del SIM (Servizio informativo militare), nel secondo racconta dei tentativi degli alleati di introdurre agenti entro i confini italiani e di effettuare anche azioni di sabotaggio, con il terzo poi si descrivono le dinamiche all’interno delle organizzazioni spionistiche italiane, dei loro rapporti con il potere politico nel periodo che intercorre fra la fine della primavera del 1943 e il famoso 25 luglio con la caduta di Mussolini, senza tralasciare, anzi ben evidenziando il crescente sviluppo dei servizi segreti tedeschi già prima di questa data.
Come al solito le fonti sono numerose e riportate alla fine del saggio, che comprende, con finalità volte a consentire ulteriori approfondimenti, anche un “Dizionario spionistico” con schede che evidenziano le organizzazioni interessate, nonché figure dello spionaggio citate nel testo, i rapporti al Duce sullo spionaggio militare, una varietà di documenti relativi alla guerra segreta e a lettere scritte dal carcere.
Peraltro c’è un’ulteriore chicca, e cioè un inserto con le fotografie dei protagonisti di “Guerra di spie”, in alcuni casi nella loro duplice veste di arruolati con falso nome nei servizi nemici e di condannati a poche ore dalla loro fucilazione.
Sono sicuro che chi è interessato alla lettura avrà modo di soddisfare le sue curiosità e al termine sarà in grado di comprendere l’importanza di questa attività che, per ovvi motivi, soprattutto in tempo di guerra cerca di restare nell’ombra, sia che si tratti di spionaggio che di controspionaggio.
RENZO MONTAGNOLI - 10 mesi fa
|
Il bambino di Salisburgo - Edgarda Ferri
Mi è venuta improvvisa la voglia di citare la Divina Commedia, laddove, nel Purgatorio, Virgilio si rivolge a Catone l’Uticense presentandogli Dante e gli dice “Libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta” con riferimento al suicidio del politico romano, un atto estremo per non incappare nell’umiliazione di chiedere la grazia a Giulio Cesare.
Viene logico chiedersi che relazione ci sia fra un personaggio vissuto nel primo secolo avanti Cristo e il grande musicista austriaco che consumò la sua breve esistenza nella seconda metà del diciottesimo secolo.
Una risposta esauriente si può trovare nella bellissima biografia scritta da Edgarda Ferri, che evidenzia l’irrefrenabile desiderio del compositore salisburghese di essere finalmente libero di condurre la propria esistenza, senza la presenza oppressiva del padre che, con continui ricatti, gli impose di vivere secondo il suo punto di vista, incurante delle legittime aspirazioni del figlio. A differenza di Catone Mozart non si suicidò, ma di certo, unitamente alla circostanza che si era appannato con la maggiore età il mito del bambino prodigio, aveva finito per condurre un’esistenza grigia e senza soddisfazioni, comportandosi come un fallito anche se non lo era e non accettando quella normalità che non gli era mai stata propria. Per dirla in breve non si suicidò, ma nulla fece per vivere.
Il libro è bello, sotto ogni aspetto, la narrazione di Edgarda Ferri è puntuale e precisa, nulla le sfugge di una vita così intensa quale è stata quella di Mozart durante l’infanzia; descrive bene i personaggi, soprattutto Leopold Mozart, il padre padrone del piccolo genio, un uomo che vede nel figlio quella possibilità di successo e di fama da lui sempre agognati e mai raggiunti. La brama di arrivare incombe continuamente sul piccolo Mozart, escludendo perfino la sorella Nannerl, che pure avrebbe avuto grandi possibilità di affermarsi con il suo talento musicale. Le descrizioni dei viaggi, gli incontri con i reali dell’epoca, la felicità infantile di Amadeus che con il trascorrere degli anni, raggiunta la maggiore età, si trasforma in insoddisfazione, stante la pressione paterna, l’incapacità del giovane di sottrarsi a questo vincolo opprimente, il declino fra ristrettezze tali che, da morto, finirà in una fossa comune, sono descritti mirabilmente e con una vena di compassione per un uomo a cui non fu permesso di vivere normalmente.
Secondo me Mozart è stato il più grande compositore di tutti i tempi, un compositore universale, stante la sua grandezza nella musica classica, in quella sacra, in quella sinfonica e in quella operistica, ma è stato anche e soprattutto un essere umano che ha cercato sempre, senza mai ottenerla, un po’ di libertà.
Da leggere, più che un consiglio è una raccomandazione.
RENZO MONTAGNOLI - 11 mesi fa
|
|