Devo ammettere che ero convinto che Ben Pastor avrebbe continuato a scrivere romanzi storici con protagonista il militare romano Elio Sparziano, l´ultimo dei personaggi da lei creati dopo il celeberrimo ufficiale dell´Abwehr Martin von Bora e la non riuscita coppia di investigatori Kaael Heida e Solomon Meisl. Infatti, visto il successo incontrato con la serie dell´inviato speciale dell´imperatore e considerato anche con l´età non è facile cambiare, tutto mi sarei aspettato tranne che un libro con un nuovo protagonista. Tuttavia, la cosa deve essere stata studiata bene, cercando di fare in modo che l´impatto con i lettori fosse subito positivo, partendo da una storia che più conosciuta di così non può essere e mi riferisco a I promessi sposi di Alessandro Manzoni. Del resto credo che non a pochi, ultimata la lettura del libro dello scrittore milanese, sia rimasta la curiosità di sapere come la vicenda sarebbe potuta proseguire, cioè che fine avrebbero potuto fare Renzo, Lucia, Don Abbondio, l´Innominato, e a questo ha provveduto Ben Pastor, ambientando la trama del suo nuovo romanzo nell´anno 1628.
Il libro comincia con il ritrovamento del corpo dell´Innominato (al secolo Bernardino Visconti) morto ammazzato con un colpo d´arma da fuoco. Incaricato delle indagini è il Luogotenente di giustizia a Milano Diego Antonio Sarria De Olivares, spagnolo per parte di padre, mentre la madre è italiana, circostanza non inconsueta, stante il dominio spagnolo.
Il nuovo personaggio è particolare, perché ha la vocazione di diventare un religioso, un gesuita, tanto da ufficializzare la scelta con una reciproca promessa fatta con la sorella Sibilla, che ha già preso i voti con il nome di Suor Cattarina.
La vicenda è del tutto particolare e anche intricata, l´indagine si mostra subito difficile, ma alla fine, dopo non pochi patemi d´animo e di colpi di scena giunge alla conclusione, assicurando alla giustizia il non improbabile colpevole.
Direi che l´ aspetto poliziesco è un puro pretesto per imbastire un romanzo che è la descrizione della Milano e dintorni dell´epoca, un ritratto di pregevole fattura che non si limita alla necessaria scenografia, ma che riporta le atmosfere di una città dominata dallo straniero e da poco uscita dall´epidemia di peste. Questo, tuttavia, che pur sarebbe molto, è opportunamente integrato da una vicenda amorosa del De Olivares con la ricca vedova di Don Ottaviano Gallarati e cioè Donna Polissena De´ Stampi. Affascinante, erudita, la donna poco a poco attira in una ragnatela il Luogotenente e lo strappa alla vita religiosa che si era prefissato, ma che, essendo poca la vocazione, non aveva mai intrapreso.
Dalla penna di Ben Pastor esce così un romanzo che è molto piacevole, nonostante un certo ritmo lento, che però l´epoca giustifica, un libro in cui si entra poco a poco e che diventa sempre più avvincente, pagina dopo pagina, al punto che arrivati al termine si desidera che abbia un seguito e questo mi sembra sia la prova migliore della felice scelta del nuovo protagonista.
Di questo autore avevo letto in precedenza Non esistono posti lontani, la cui trama è un viaggio attraverso l´Italia nel corso della seconda guerra mondiale, con due personaggi indovinati che danno vita ad avventure picaresche e a situazioni a volte esilaranti. Mi era abbastanza piaciuto, proprio per questa attitudine a divertire il lettore, senza porgli tanto problemi, insomma un libro di puro svago. Questo che invece ho finito di leggere da poco si avventura nel mondo botanico dei gelsi, le cui foglie sono l´alimento dei bachi da seta, con un gruppo di amici che ne hanno combinate parecchie in passato e che ancora ne combinano. Se devo essere sincero mi sono venuti in mente i film della serie "Amici miei", anche se la creatività di Faggiani ha dato vita a una trama senz´altro inferiore, pur restando lo scopo di far ridere. In realtà, vuoi perché i paragoni sono spesso impietosi, vuoi perché, per quanto si sforzi l´autore non è certamente al livello di Stefano Benni o di Giovannino Guareschi, il risultato è però modesto, nel senso che al più mi ha strappato un sorriso. Arrivato alla fine, molto velocemente, ho tirato le conclusioni e ho rilevato che è facile dimenticarsene alla svelta, perché il contenuto è poca cosa e, quanto al divertimento, non mi è parso particolarmente riuscito.
Il mio approccio con questo storico è avvenuto con 9 Agosto 378 Il giorno dei barbari. Non è un caso se ho optato per questo titolo, ma, così a memoria, ricordo che nei miei studi scolastici la fine dell'impero romano e con esso dell'antichità, con avvio al medioevo, era liquidata in poche pagine, tanto che quasi all'improvviso lo studente apprendeva della divisione dell'impero romano in due entità: quello d'occidente e quello d'oriente; nulla i libri riportavano sul perché di questa divisione e i miei insegnanti nulla aggiungevano, poi cominciavano le invasioni dei barbari, degli Unni, dei Goti, degli Ostrogoti, un susseguirsi di guerre deleterie esposte in un paio di paginette. Era quindi logico il mio desiderio di approfondire, di colmare quelle incolpevoli lacune scolastiche che creavano nella mia mente una situazione confusa, un succedersi di eventi di cui non riuscivo a trovare il filo, come se si fosse trattato di fatti con correlati, ma del tutto autonomi. Devo dire che questo bel saggio di Barbero è pienamente venuto incontro alle mie esigenze, e ciò seguendo un discorso razionale, lasciando ben poco spazio alla fantasia, in modo semplice e accattivante, così che la lettura, oltre che particolarmente istruttiva, mi è risultata facile, per nulla greve, anzi di una particolare e appagante gradevolezza. Insomma si può dire che il professor Barbero scrive come parla in televisione e mi auguro che sia altrettanto chiaro, completo e piacevole quando insegna.
C'è da chiedersi perché è importante questa data, che cosa è accaduto il 9 agosto 378, un giorno tale da restare memorabile. Ebbene si svolse la battaglia di Adrianopoli, città sita nella provincia romana della Tracia, che corrispondeva all'attuale Turchia europea. Lo scontro vide contrapposti da un lato l'imperatore dell'Impero romano d'oriente Valente con il suo ben addestrato esercito e dall'altro Fritigerno con i suoi Goti. L'esito fu fatale ai romani, che vennero pressoché annientati e fra essi anche Valente. Barbero, nel prologo al suo libro, tiene a precisare come questa battaglia comunque non sia famosa come quelle di Waterloo e di Stalingrado, anche se il suo esito finì con il segnare, come opinione anche di altri storici, la fine dell'Antichità e l'inizio del Medioevo. L'autore è molto bravo nel delineare gli antefatti, ponendo in luce le trasformazioni intervenute nell'impero romano, le diversità esistenti fra la parte occidentale e quella orientale dello stesso, la diffusione della religione cristiana fra i barbari, quella religione che era già quella ufficiale nell'impero, ed è altrettanto capace di tratteggiare le conseguenze di questa sconfitta, cioè quella caduta inarrestabile di Roma, al cui tonfo si evidenziò quel periodo da non pochi considerato oscuro, ma che pure aveva anche dei valori non indifferenti, e che viene chiamato Medioevo. Credo di poter dire di essere sostanzialmente in accordo con il pensiero di Barbero, tranne in un elemento non certo da poco: la decadenza. Secondo l'autore l'impero non era certamente in condizioni salde e floride, ma non poteva essere considerato in condizioni di collassare gradualmente. Al riguardo, tuttavia, Barbero cita, dando prova di molta obiettività, in quanto di opinione contraria alla sua, il Gibbon, storico inglese che ha scritto un'opera di grande valore (Declino e caduta dell'impero romano) in base alla quale l'impero, alla vigilia delle famose invasioni barbariche, era un'entità in profonda decadenza. Personalmente sto con Gibbon, perché già da diverso tempo Roma era minata profondamente nella sua struttura da tutta una serie di problemi, alcuni dei quali peraltro evidenziati anche da Barbero, e che la facevano apparire sì come un colosso, ma dai piedi d'argilla. Queste erano le cause: secoli di conquiste e poi la decisione di fermarsi, perché i confini, troppo ampliati, erano difficili da difendere; la penuria nell'esercito di autentici romani che faceva sì che annoverasse nei suoi ranghi soprattutto truppe barbare; un flusso migratorio dalle zone poco civilizzate, agevolato sia per rimpolpare i corpi militari, sia per disporre di mano d'opera a basso costo; l'incertezza del potere, con imperatori che si succedevano con troppa rapidità, imposti dai loro stessi soldati; la diffusione del cristianesimo, che sminuiva la figura dell'imperatore, non più divino, e che cercava di allentare la schiavitù; la corruzione sempre presente a ogni livello; il vizio di mettere nei posti di responsabilità persone solo fedeli, ma spesso incapaci; la crisi economica, con un'inflazione crescente. Messe tutte insieme collaborarono alla disgregazione dell'impero e la battaglia di Adrianopoli è solo il fatto che di colpo mette alla luce una fragilità a lungo nascosta. Ed è strano come la storia si ripeta: spostiamoci di circa 1.600 anni e possiamo rilevare come parte di queste cause sia presente anche oggi, nel nostro Stato, augurandoci che non vi sia un'altra Adrianopoli e che quell'atmosfera da basso impero che si respira venga alla fine fugata. Questo riscontro è un'ulteriore prova di come la conoscenza del passato possa spiegare il presente.
Corredato da un ampio elenco bibliografico, il saggio di Barbero è ampiamente meritevole di essere letto e, sempre per restare in epoca romana, è una lettura talmente piacevole che mi sento di dire che anche per questo, come per pochi altri, vale la locuzione latina jucunde docet.
Povera Italia, verrebbe da dire giunti all'ultima pagina, ma sarebbe più opportuno concludere con un poveri noi.
La rizzagliata, infatti, è un giallo alla Sciascia in cui si rappresenta il diffuso cinismo che sembra soffocare ogni giorno di più quello che un tempo veniva chiamato Il bel paese.
Non troviamo il commissario Montalbano e questo giustamente, perché la denuncia di Camilleri di un'insieme di cose quotidiane a cui ormai ci siamo quasi assuefatti esula da quello che è il semplice romanzo giallo che vede protagonista il simpatico poliziotto (anche se a volte pure lì ci sono allusioni nemmeno tanto velate ai mali attuali). La rizzagliata non è stato scritto per divertire il lettore, ma per avvertirlo, per mostrargli il degrado in cui è immerso e di cui sovente ha solo una vaga consapevolezza. In questo senso può essere anche considerato un romanzo storico, pur nell'ambito di personaggi di esclusiva fantasia, ma il mondo rappresentato, le connivenze e le furberie, gli interessi solo in apparenza contrapposti costituiscono un preciso atto d'accusa a una classe, quella dei politici, che vive una realtà tutta sua, in una sorta di limbo infernale le cui manifestazioni esteriori sono di pubblico dominio, una sorta di rissa in cui gli altri - cioè il popolo - sono ridotti al rango di semplici spettatori.
Se è vero che la rizzagliata è una rete da pesca da cui il pesce difficilmente può scappare, è altrettanto vero che è pressoché impossibile sfuggire alla rete che il potere politico, economico e mediatico costruisce attorno a una persona. Nel libro c'è una costruzione siffatta che, nella sua individualità, può essere tuttavia estesa all'intera collettività, impotente di fronte a un accerchiamento di forze che di fatto ha addormentato le coscienze e nauseato, fin quasi allo sfinimento, chi ancora ha occhi per vedere.
In particolare, nel romanzo l'intreccio esistente fra gli organi di informazione, potere politico, potere economico e potere mafioso portano a un profondo senso di disgusto che è la prova certa di quanto la decadenza a tutti i livelli, compresi quelli familiari, stia corrodendo gli animi, in un trionfo dell'amoralità, in cui tutto viene fatto senza il benché minimo esame di coscienza. E poiché nell'uomo sono naturalmente presenti il male e il bene, nel ridursi ai più bassi istinti finirà sempre con il prevalere, senza battaglia, il male.
Camilleri questa volta ha inteso scrivere un romanzo più impegnato, ha lanciato un grido, per non dire un urlo che chissà se sarà udito. Indubbiamente si nota nello scritto quanto la questione gli stia a cuore, c'è insomma una sua partecipazione emotiva che nuoce un po' all'equilibrio del testo (o forse questo mondo di pazzi, così ben descritto, è squilibrato per sua natura).
La rizzagliata è un piatto freddo, per non dire gelido, un'unica portata per un popolo che sembra non avere più fame di verità. Eppure, a Camilleri va un plauso per la sua incrollabile tenacia che lo porta a condurre, nonostante l'età avanzata, una battaglia che sembra persa in partenza.
Tanto di cappello, quindi, con la speranza che chi leggerà questo eccellente romanzo possa comprenderlo nel suo autentico significato, risvegliando magari una coscienza da troppo tempo sopita.
L’accostamento all’opera filosofica di Marco Tullio Cicerone non è azzardato, perché lì, come in questo lavoro di Enzo Bianchi, si parla della vecchiaia. Certo sono passati non pochi anni, tanti in verità, da far temere che lo scritto del filosofo romano possa essere superato, ma non è così, perché l’ultimo periodo della vita di un uomo non è diverso da quello di oltre duemila anni fa. All’epoca Cicerone prese in esame le critiche mosse alla vecchiaia (la decadenza fisica, l’attenuarsi dell’attenzione, l’affievolirsi, fino a scomparire, del piacere dei sensi, la paura della morte incombente) per confutarle; sullo stesso percorso si esprime Enzo Bianchi, con un libro di rara profondità e bellezza, scritto in modo facilmente intellegibile, capace di infondere pagina dopo pagina quel senso di serenità che è proprio di chi si rende conto che tutto è nell’ordine delle cose, che si nasce, si cresce, si invecchia e si muore. Quello che è importante, quello che rende la vita irripetibile e appagante è l’umanità, è la consapevolezza che c’è un senso in tutto e che quindi la vecchiaia, e poi la morte, non devono preoccupare. Non ci si deve fare assalire dalla malinconia o peggio ancora dalla tristezza, ma anche i giorni della tarda età devono essere vissuti con piacere e pienamente, non pensando al dopo come quando si era giovani e la morte ben difficilmente entrava nelle nostre riflessioni.
Si avverte chiaramente che è un libro scritto da una persona non giovane (la prima edizione è del 2018 allorché l’autore aveva 75 anni) ed è del tutto naturale che sia così, perché una fresca età cozza con le possibilità di parlare dei problemi connaturati a una tarda età, problemi che non sono univoci, ma che sono riscontrabili, magari in diversa misura, fra quelli che con un pietoso eufemismo si definiscono diversamente giovani.
Sono pagine in cui è facile ritrovarsi (ovviamente questo vale per i vecchi), scritte con tono lieve, ma che anche commuovono, come quando l’autore motiva la decisione di dimettersi nel 2017 da Priore della Comunità di Bose, che lui ha fondato. Al riguardo riporto il periodo: “ Giunta per me la vecchiaia e una maggior stanchezza, ho sentito il desiderio di lasciare la presa, soprattutto di lasciare che le generazioni successive alla mia continuassero con un nuovo soffio un’opera che sarà sempre incompiuta.”(Pagina 133)
Peraltro troviamo in questo libro un’emozione sincera per la vita vissuta e ancora l’entusiasmo per quella da vivere (da pagina 105 “ Grama la vita per i vecchi, comincio a sperimentarlo, anche se resisto e lotto perché voglio vivere la vecchiaia: non aggiungere giorni alla mia vita, ma aggiungere vita ai miei ultimi giorni.”); certo, Enzo Bianchi è un credente e questo lo aiuta non poco, ma le motivazioni, che sono di conforto per chi in tarda età vede crescenti i suoi problemi, sono di una tale umanità che anche l’ateo, o addirittura l’agnostico, non possono che convenire con lui.
Timoroso di trovare un quadro irrimediabile degli anni che mi aspettano, pagina dopo pagina sono stato contagiato dalle riflessioni dell’autore, ho apprezzato le citazioni bibliche sul tema, mi sono reso conto che avanti con gli anni, pieno di acciacchi, sono sempre io, con il corpo che sicuramente porta i segni del tempo, ma alla continua ricerca di ciò che di buono può portare l’età, nella piena consapevolezza che anche l’ultima stagione merita di essere vissuta.
Leggetelo, giovani e vecchi, perché è un libro che vale per tutte le età.
E’ con la copertina di questo libro che si presenta il maestro Anselmo Cessi, in una fotografia di classe, la sua classe, i suoi alunni delle elementari, maestro di insegnamento, ma anche maestro di vita, perché mai si piegò, nonostante la dittatura imperante, quel fascismo che non sopportava chi pensava diversamente al punto di bastonarlo, di rinchiuderlo, o peggio ancora di assassinarlo. Maestro di vita lo è stato anche con la sua morte , ucciso vilmente dai “bravi” dell’epoca, e anche questo fu un delitto che restò impunito, e non poteva essere diversamente, perché l’autorità che governava l’Italia ne è stata, anche direttamente, il mandante, e quindi mai avrebbe potuto sconfessare se stessa.
Anselmo Cessi nacque a Castel Goffredo, in provincia di Mantova, il’8 novembre 1877 e divenne, come la madre, maestro di scuola elementare. Nel 1906 si sposò e dall’unione con Erminia Schinelli, pure lei maestra, videro la luce sette figli, di cui cinque morirono da piccoli. Oltre all’attività di insegnante si impegnò anche politicamente, sia pure a livello locale, dapprima come iscritto del partito democratico-cristiano e successivamente nel Partito Popolare di Don Sturzo, ricoprendo vari incarichi. All’avvento del fascismo lo contrastò da subito democraticamente, auspicando sempre la tolleranza e il reciproco rispetto, ma quell’uomo con i baffi, quel maestro così battagliero nel difendere la libertà agli occhi di qualcuno divenne indigesto e con i metodi spicci della marmaglia lo misero a tacere. Fu la sera del 19 settembre 1926, mentre tornava a casa con la seconda moglie (la prima era deceduta) fu assalito da due uomini che lo presero a bastonate; ma non bastava e infatti uno dei due gli sparò un colpo, uno solo, purtroppo mortale.
Giovanni Telò, pure lui nativo di Castel Goffredo, avvalendosi di un’ampia documentazione, ne ha scritto la biografia, evidenziando il carattere e l’indubbia fede religiosa, con uno stile snello, scorrevole, quasi fosse una narrazione. Non si ferma però alla data della morte, ma va oltre con la ricerca dei responsabili, grazie anche alla testimonianza della vedova. Così furono portati alla sbarra Achille Nodari, il podestà, Enrico Bresciani, capomanipolo della Milizia, e Umberto Vescovi, dipendente della Federazione Provinciale del Partito Fascista. Le prove testimoniali quindi non mancavano, ma l’esito del giudizio era scontato in partenza con la piena assoluzione degli imputati.
Benché si tratti di un personaggio strettamente legato al suo territorio, il fatto stesso di essere annoverato fra i martirizzati dal fascismo lo rende già di per sé meritevole di essere conosciuto. Se poi si considera la sua azione, se si tiene presente la figura integerrima e si hanno presenti i suoi ideali, chiara emerge la nobiltà di questo umile maestro di campagna, un uomo libero che amava la libertà anche per gli altri.
Il libro, che merita senz’altro di essere letto, si avvale anche delle presentazioni di Egidio Caporello, vescovo di Mantova, di Mario Beruffi, sindaco di Castel Goffredo, di Filippo Cerini, presidente della Banca di Credito cooperativo di Castel Goffredo, di Neva Campanini, presidente dell’Associazione italiana maestri cattolici – Sezione di Mantova e della prefazione di Giorgio Runi, docente di Storia contemporanea all’Università degli Studi di Milano.
L’opera, corredata da fotografie d’epoca e dalle indicazioni delle indispensabili fonti, è senz’altro meritevole di lettura.
La catena completa in modo impeccabile la trilogia con cui Emilio Lussu dapprima ha parlato con Un anno sull'altipiano della Grande Guerra, conflitto dal forte impulso nazionalistico e quindi, in un certo senso, propedeutico del fascismo, quindi dell'avvento dello stesso con Marcia su Roma e dintorni e infine del consolidamento della dittatura proprio con l'opera di cui mi accingo a scrivere.
In ogni caso si tratta sempre di esperienze dirette, di vita vissuta, ma mentre il romanzo che si svolge sull'altopiano di Asiago e che è senz'altro uno dei libri di più forte impatto nel denunciare l'insensatezza e l'inutilità della guerra lascia più spazio alla creatività, i due successivi finiscono con il diventare la disamina storica di un periodo che si concluderà, dopo tanti lutti e tragedie, nel 1945.
Mussolini, raggiunto il potere, avverte la necessità di consolidarlo, diventando il padrone assoluto e, come in tutti i regimi totalitari, instaurando il principio secondo il quale o si è con il dittatore, o si è un nemico, da isolare, da rendere inoffensivo tanto da annientarlo. E' di questa fase che parla Emilo Lussu con La catena e che va dall'assalto alla casa dello scrittore di un centinaio di fascisti, a cui lui cercherà di opporsi uccidendone uno, al successivo processo, all'assoluzione combattuta e grazie a giudici onesti, ai provvedimenti del Tribunale Speciale grazie ai quali fu confinato a Lipari, da cui, insieme a Carlo Rosselli e Francesco Nitti riuscì a riparare in Francia con una rocambolesca fuga, che ebbe grande rilievo internazionale e che fu uno smacco per il regime.
Le azioni poste in essere da Mussolini per consolidare la sua posizione, come per esempio alcuni attentati alla sua persona armati dalla sua stessa mano, le nuove leggi che di fatto impedivano qualsiasi opposizione, il funzionamento dei Tribunali Speciali, la difficile esistenza dei confinati, dei loro familiari e dei loro amici danno vita a un quadro talmente orrendo che è lecito chiedersi come oggi ci sia ancora gente che crede nella bontà del fascismo (come del resto, in contrapposizione, ci sono quelli che ancora sognano un ritorno al comunismo staliniano). Il tutto è raccontato in modo notevolmente efficace, perché si è trattato di esperienza diretta e l'atmosfera fosca, cupa che aleggia in quelle pagine e che può intimorire oltre misura il lettore è saggiamente stemperata da una sempre presente ironia, anche se amara.
Senza retorica, senza esaltazione dei propri meriti, Lussu ci ha lasciato una testimonianza indispensabile per comprendere tante cose, anche per capire come per circa un ventennio una intera nazionale, fra partecipazione e più spesso indifferenza, si sia lasciata abbindolare da un uomo che voleva essere il padrone del mondo , ma che era senza qualità e che dal trono su cui si era issato finì appeso per i piedi alle strutture di un distributore di benzina a Milano.
Da leggere, quindi, e magari da inserire nei programmi scolastici.
Sul tema avevo già letto 9 agosto 378 Il giorno dei barbari, un interessante saggio di Alessandro Barbero, e sono stato pertanto curioso, più del solito, di leggere il romanzo storico uscito dalla fertile penna di Guido Cervo. Come immaginavo, il narratore bergamasco si è attenuto fedelmente ai fatti, inserendo opportunamente personaggi e vicende di fantasia, sempre plausibili con un’abilità che gli deve essere riconosciuta.
I Goti, pressati dagli Unni, che non sottomettevano, ma uccidevano, chiesero aiuto ai Romani, in particolare domandarono di entrare nel territorio dell’impero e che fossero loro assegnate delle terre da coltivare, promettendo in cambio di servire militarmente sotto di loro. L’imperatore Valente dimostrò il suo interesse, onde ottenere truppe indispensabili per liberarsi una volta per tutte del pericolo persiano, consentendo ai Goti di varcare il Danubio per entrare così nel territorio romano; finì però con il non rispettare i patti, in particolare anche per la corruzione dei suoi dignitari che rubarono gran parte delle provviste destinate agli immigrati, a cui inoltre riservarono terreni pressoché incoltivabili. Ne derivarono reciproche diffidenze che si concretizzarono ben presto in scontri armati a cui Valente credette di porre rimedio provvedendo a una tregua con i persiani e convincendo Graziano imperatore d’occidente a soccorrerlo con una grande armata. Il destino dei Goti, accampati nei pressi di Adranopoli, sembrava segnato, ma quando si combatte per la propria sopravvivenza si aguzza l’ingegno ed è quel che fece il loro capo Fritigerno, ricorrendo a un’alleanza con gli Ostrogoti e gli Alani, che contribuì ad aumentare considerevolmente gli effettivi delle truppe. Valente, peraltro, era talmente sicuro della vittoria che non attese l’armata di Graziano, anche per dimostrare la sua superiorità, e decise di dare battaglia; in verità ci furono più tentativi per evitare lo scontro, uno addirittura anche sul campo, ma con gli uomini di entrambe le parti a fronteggiarsi per delle ore non era da escludere un incidente, il che avvenne per colpa dei romani, che così diedero inizio alla lotta. I Goti che, contrariamente ai calcoli sbagliati effettuati dagli esploratori imperiali, si rivelarono notevolmente superiori di numero, ben condotti da Fritigerno ebbero ben presto campo vinto. Infatti la battaglia si concluse con un’autentica disfatta dei romani, che fra le moltissime perdite registrarono anche quelle di alcuni generali e dello stesso imperatore Valente.
Da quel 9 agosto del 378 iniziò la caduta inarrestabile del più grande impero della storia, con l’esito infausto di una battaglia che non era altro che la conseguenza di un insieme di problemi che emergevano ogni giorno e ai quali non si voleva, ma anche non si poteva, dare soluzione.
Nel contesto della narrazione di Cervo, intorno al fil rouge storicamente del tutto attendibile, si innestano altre vicende minori che, oltre a dare corposità all’opera, mostrano indirettamente come il grande impero, apparentemente monolitico, avesse i piedi ormai di argilla; si tratta con ogni probabilità di pagine in cui prevale la creatività, ma hanno un peso non trascurabile e costituiscono motivo di ulteriore interesse.
Del resto non si possono che apprezzare lo stile snello, la felice caratterizzazione dei protagonisti, l’ambientazione precisa e la descrizione delle scene di guerra, contrassegnate da una notevole dinamicità, e infine, non meno importante, l’autentica pietà dell’autore per i suoi personaggi meno fortunati.
Le mura di Adrianopoli è un romanzo di notevole bellezza.
Il vicequestore Vanina Guarrasi riceve una telefonata da Don Rosario Limoli, un sacerdote impegnato, anima e corpo, a recuperare ragazzi tossicodipendenti o facenti parte di certi giri criminali. Sconvolto le comunica l’uccisione di Thomas Ruscica, uno dei suoi carusi, forse il migliore, perché oltre a essere redento era diventato lui stesso un volontario impegnato in analoga attività. Da lì nasce questo romanzo giallo di Cristina Cassar Scalia, oftalmologa sempre più operante nell’ambito della letteratura poliziesca e dato che in pratica si tratta di episodi di una stessa serie si ritrovano sempre i medesimi personaggi: appunto il vicequestore Vanina Guarrasi, donna d’azione, la sua squadra, con tutti i componenti ben delineati, il simpatico ex commissario Patané, da diverso tempo in pensione, ma sempre pronto a fornire il suo intuito, la vicina e padrona di casa Bettina, che, quando fa da mangiare, sembra che prepari il rancio, peraltro eccellente, per un reggimento e tanti altri, che non sto a nominare, ma che sono ricorrenti. Le indagini si presentano complesse e anche confuse, e in questo di suo mette non poco Cristina Cassar Scalia, ma alla fine, fra sospetti, levatacce e anche mangiate pantagrueliche, si arriva alla soluzione, purtroppo poco logica, circostanza non infrequente nella produzione di questa narratrice siciliana. Il suo problema è che si lascia prendere la mano, raccontando di amorazzi vari, di pranzi luculliani, seminando qua e là un numero di indizi eccessivo, così che alla fine salta fuori il colpevole che, se logicamente è in apparenza il meno sospettabile, però è anche vero che appare solo nelle ultime pagine. Certo la narrazione può anche essere utile per costituire un gradevole passatempo per chi legge che, però, finisce con il restare francamente deluso.
Considerato che non è il primo di questa narratrice con questa caratteristica di certo non positiva penso proprio di non leggerne altri.
È strano il destino di Michele Sparacino, nato alla mezzanotte tra il 3 e il 4 gennaio del 1898, da famiglia poverissima, con un padre ubriacone e sempliciotto che ha già un bel problema all'anagrafe nel denunciarne la nascita. Sarà il 3 o il 4 gennaio? Risolve il tutto l'impiegato, provocando, però, involontariamente, tutta una serie di conseguenze che non toccano la famiglia del pargolo, ma che si manifestano in sommosse e tumulti, eventi eclatanti che attirano l'attenzione di un giornalista che per farsi bello inventa il Masaniello di turno, attribuendogli per un caso del tutto fortuito il nome di Michele Sparacino. Da allora il vero Michele Sparacino proverà sulla propria pelle cosa voglia dire essere scambiato per un facinoroso, tanto che a militare verrà considerato prima un disfattista, poi connivente con il nemico (siamo nel corso della Grande Guerra) e infine, poiché scompare durante la ritirata di Caporetto, anche un disertore. Il destino però gli ha riservato una sorpresa, lui che in effetti, al di là della nomea immeritata, è sempre stato uno sconosciuto, diventerà ignoto in assoluto, con onori e gloria, quali spettano a chi riposa nell'Altare della Patria.
Si tratta solo di un racconto, ma le finalità di Camilleri non sono tanto quelle di imbastire una storia che si legge con molto piacere, ma vanno ben oltre. In fondo avrebbe potuto intitolarlo le tre vite di Michele Sparacino, ma in tal caso sarebbe venuto meno al suo intento, poiché in effetti la vita di Michele Sparacino è una sola, mentre sono altre e più quelle che gli uomini gli attribuiscono scambiandolo per altra persona e questo nel solco tracciato da un altro grande siciliano, Luigi Pirandello. E tutto questo per un'invenzione giornalistica, il che dimostra come la stampa possa condizionare esistenze, a cui si aggiunge, inevitabile, la visione che ognuno di noi ha di un altro. Così, se Michele Sparacino è stato visto come un capitano di popolo, poi come un soldato con i più gravi difetti per un militare (e che non aveva), cioè disfattista, connivente con il nemico, disertore, anche da morto il suo corpo ha un'altra vita.
Era facile cadere in contraddizioni, perdere il filo del discorso, rendere inverosimile la vicenda, ma Camilleri ha saputo procedere con sicurezza, non disdegnando anche di darci un'immagine dell'autentico Michele Sparacino: un po' ingenuo e un po' furbo, schiacciato tuttavia da chi comanda, un ritratto che si potrebbe estendere tranquillamente alla quasi totalità di noi italiani.
Quindi di carne al fuoco ne ha messo tanta, sia pure in poche pagine, e da abile scrittore quale è non l'ha mai bruciata, anzi ha saputo confezionare un racconto di eccellente qualità e che è indubbiamente meritevole di essere letto.
Questa raccolta di racconti conclude il grande progetto a cui Bassani ha dato il nome Il romanzo di Ferrara, ma se era lecito attendersi un’opera addirittura migliore delle precedenti, questa costituisce purtroppo una delusione. Nel leggere queste prose si ha l’impressione di trovarsi davanti al lavoro di un autore che nei libri precedenti ha detto tutto quello che si sentiva di dire; carenza di idee, racconti che, mi spiace dirlo, spesso sono banali e che pertanto, in quanto tali, destano ben poco interesse, insomma un qualcosa che sembra raffazzonato e che magari offre anche qualche pagina piacevole, ma che per lo più finisce con l’annoiare. La creatività sembra spenta, perfino l’italiano, non consueto e non corrente, apprezzato in precedenza, qui langue, dando chiara l’impressione di un’evidente forzatura, come se Bassani avesse dovuto scrivere per contratto e non per il piacere di comunicare. Benchè gli argomenti trattati siano diversi, per tutti vale un dimesso grigiore che trascina lentamente e con fatica il lettore fino all’ultima pagina. A onor del vero ci sarebbe un racconto (Pelandra) il cui spunto é notevole, ma che poi si trascina inerte come un semplice fatto di cronaca, per quanto la trama sia tale da meritare una trasposizione ben diversa, magari con un sottile filo di ironia che non è però nelle corde dell’autore e che invece avrebbe potuto risultare assai migliore in ben altre mani, tanto per intenderci quelle di Piero Chiara. Che poi il libro termini con una sorta di appendice (Gli anni delle storie) in cui l’autore cerca di spiegare come abbia potuto scrivere i romanzi e i racconti di Il romanzo di Ferrara non è motivo di particolare attrazione; chi si attendesse chissà quali rivelazioni rimarrebbe francamente deluso, insomma, per dirla in breve, ho finalmente trovato un’opera di questo autore, da me particolarmente stimato, ben poco riuscita, ben al di sotto del livello a lui consueto. Nondimeno le posso attribuire, più che un valore letterario, un valore storico, come completamento di una produzione che ha sempre avuto al centro l’amata città di Ferrara e che può essere considerata una, se pur incompleta, autobiografia.
Ed é per tale motivo che non ne sconsiglio la lettura.
La giovinezza non è sempre primavera di bellezza, anzi può essere un periodo di profonda tristezza interiore, di solitudine riveniente da una inconsapevole auto esclusione. Ed è di quegli anni, anni di studio al liceo, che parla questo delicatissimo romanzo di Giorgio Bassani. É il ricordo che guida la mano del narratore, che descrive con sapienza un microcosmo in cui tutti per un po’ ci siamo trovati, quello scolastico. Il periodo storico va dall’ottobre del 1929 al giugno del 1930, ma ho rilevato che quel mondo di aule, di compagni di classe, di insegnanti era assai simile a quello che ho vissuto io, solo che a dividerci c’era stata una sanguinosa guerra e una lunga ricostruzione; per il resto, gli atteggiamenti dei professori, le piccole gare per riuscire a essere il più bravo, le invidie, le ripicche sono le stesse dei miei anni ‘60 e occorrerà arrivare al famoso ‘68 perché vi sia un radicale e irreversibile cambiamento. Per l’autore è un periodo di sfide tacite, della ricerca di un compagno con cui condividere gli studi e la scelta cade su quello che, senza essere un somaro, non è nemmeno una cima, una sorta di gregario che non potrà mai diventare un pericoloso concorrente nella gara per diventare il più bravo della classe. Inizia così un rapporto in cui la continua frequentazione fa scivolare verso un’intimità sempre più accentuata, che sfiora anche la sfera sessuale nel difficile periodo del passaggio dallo stato infantile, o quasi, a quello adulto. L’io narrante è timido e tende sempre di più a chiudersi a riccio, come a proteggere quell’innocenza dell’infanzia in cui gli piace crogiolarsi. Ma c’è chi matura prima e il nuovo compagno ne è un esempio, e così l’autore apprenderà dolorosamente quanto il presunto amico sfotta quel suo essere ancora non adulto. É allora che diventerà uomo, ma la lacerazione interiore, una sofferenza sorda e muta, lo accompagneranno per tutta vita. La perdita dell’innocenza é la perdita di un mondo che gli pareva eterno e che invece si è squarciato nell’amara realtà delle miserie umane; ciò lo isolerà ulteriormente, impedendogli di aprire quella porta che lo conduca alla consapevolezza di essere parte di una realtà che inconsciamente rifiuta.
Dietro la porta é un autentico gioiello, soffuso, tenue e forte al tempo stesso, frutto di un ricordo che è un grido disperato.
Da leggere, senz’altro.
L'essere perseguitati in base a una legge perché si è nati ebrei e l'essere emarginati solo perché si è nati omosessuali sono i percorsi quasi paralleli di cui tratta questo romanzo breve di Giorgio Bassani, parte integrante di quel grande progetto letterario che molto opportunamente chiamò Il romanzo di Ferrara.
La vicenda del dottor Fadigati, conosciuto e stimato medico otorinolaringoiatra, con avviato studio in città, può essere solo un pretesto per delineare l'esistenza di chi, per natura o per legge, è definito un diverso, ma è anche emblematica di un falso puritanesimo che al giorno d'oggi farebbe sorridere, ma che negli anni 30', in cui in Italia predominava tanto da sembrare eterno il fascismo, era più che mai radicato. Stimato si è detto questo clinico, almeno fino a quando, pubblicamente, non rivela la propria sessualità, perché allora, all'impietosa luce del sole, si insinua nei cittadini dapprima un senso di scherno e di ilarità e poi una vera e propria emarginazione che si traduce in un calo marcato della clientela dello studio medico, in un isolamento in cui l'interessato avverte colpe che non ha. Non è un caso, poi, che pur non approvando il suo comportamento, l'autore e la sua famiglia non lo evitano, già in procinto di essere considerati pure loro diversi in quanto ebrei. Sintomatico di questo atteggiamento, se non di consenso, almeno di comprensione, è quel puvraz che pronuncia il padre dell'autore, apprendendo, raggiunta la famiglia a Riccione per le vacanze, che quella persona che così tanto stima – e che continuerà a stimare – ha manifestato pubblicamente, con grande scandalo, le sue tendenze accompagnandosi al Grand Hotel con un giovane studente sfaccendato, amico del Bassani. L'amante non è altri che un gigolò, senza alcuna morale, che va con le donne, ma che non disdegna gli uomini quando questa compagnia sia ben fruttifera. Gli spasimi di Fedigati, le sue gelosie, il lento scendere nel baratro sono descritti in modo splendido e con una penna guidata da un grande senso di pietà; sono pagine in cui l'autore riesce a cogliere il tormento dell'esistenza che può avere solo un innamorato tradito e un uomo che avverte palpabilmente un progressivo isolamento, da cui non potrà uscire se non con un gesto estremo, con un suicidio che i giornali di regime faranno passare per incidente. La vicenda si svolge mentre già la stampa comincia ad attaccare gli ebrei, tanto da parlare di imminenti leggi razziali, che di lì a poco in effetti verranno promulgate. L'ansia di questi israeliti, che memori di antiche persecuzioni sono sempre attenti a cogliere sintomi avversi, è ben esposta e procede di pari passo con le chiacchiere e gli atteggiamenti dei ferraresi nei confronti del dottor Fadigati.
Due diversità, dunque, ed entrambe incolpevoli, un senso di graduale afflizione che pervade gli animi, che rende insicuri, un'inconscia sensazione di colpevolezza quando invece colpevoli non si è, incidono le pagine come rasoi, descrivono in un italiano colto e ricercato il passaggio dai timori alla disperazione, condannano senza se e senza ma l'atroce delitto dell'emarginazione, un altro crimine di cui si macchierà il fascismo, incapace di fornire agli italiani un ideale diverso da quello che gli fu proprio, cioè la violenza per la violenza, la discordia civile, il senso dell'inutilità di una vita non libera di essere vissuta.
Non ho altro da aggiungere, salvo che questa piacevolissimo libro, che appaga in tutto e per tutto, lascia alla fine un senso di disorientamento, quasi di incredulità, come se certi fatti – e non dico quelli del romanzo – non possano essere accaduti, quando invece sappiamo che altri ben più gravi avvennero, come l'Olocausto conferma.
Scritti negli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale (tranne uno, il primo della serie, abbozzato nel 1937 ed edito nel 1940) questi cinque racconti ("Lidia Mantovani", "La passeggiata prima di cena", "Una lapide in via Mazzini", "Gli ultimi anni di Clelia Trotti" e "Una notte del '43") furono pubblicati, riuniti in un unico volume, dalla Einaudi nel 1956, ottenendo un immediato successo di critica e di pubblico, coronato nello stesso anno dal conferimento del prestigioso Premio Strega.
Tutte le prose sono accomunate dall'ambientazione (la città di Ferrara) e dalla malinconica consapevolezza che gli italiani amano troppo presto dimenticare, aderendo, spesso inconsciamente, al noto motto chi ha dato ha dato e chi ha avuto ha avuto. Tuttavia, il filo conduttore è costituito dalla opprimente cappa della dittatura fascista in dissoluzione, che vive, negli ultimi anni del conflitto, un rigurgito di violenza, tragica e inutile, come se le teste calde volessero portare con sì nella tomba anche gli altri, cioè quelli non come loro. Da questo punto di vista l'opera presenta l'indiscutibile pregio di farci capire, attraverso delle storie semplici e realmente accadute, come poté capitare che un regime, apparentemente dissolto dopo il 25 luglio del 1943, finisse con il rialzare la testa, dando vita a quello stato fantoccio che fu la Repubblica di Salò. Bassani lo fa parlando della sua Ferrara, terra di grandi squadristi, tra i quali Italo Balbo, e in cui la guerra civile prese avvio con l'eccidio di undici innocenti avvenuta nel novembre del 1943, che l'autore sposta a dicembre.
Ferrara è una città di provincia, a economia agricola, una sorta di grosso paese che l'autore ben conosce e descrive perfettamente, nelle sue strade e nei suoi personaggi, ma che riflette, per estensione, l'intera Italia, così che leggendo quelle pagine si comprendono tante cose, si capisce perché a guerra finita i processi ai criminali fascisti si siano quasi sempre conclusi in una farsa, così che dopo aver sollevato un gran polverone questo sia ritornato ad adagiarsi dove era prima, insomma un po' il concetto del Gattopardo, alla cui pubblicazione l'intervento di Bassani fu determinante.
L'impressione che ho ricavato è che forse ò'autore, con questi suoi racconti, ha inteso dire che la natura del fascismo è innata in noi italiani, menefreghisti, prepotenti, pronti a scendere a qualsiasi compromesso, a cambiar casacca, ma restando sempre noi stessi. L'esperienza degli ultimi settanta anni parrebbe purtroppo dar ragione al narratore ferrarese, confermando ancora una volta che la storia è fatta di corsi e ricorsi e che, contrariamente a quel che si dice, non insegna nulla, o meglio che da essa non impariamo, o non vogliamo imparare nulla.
Da leggere, perché lo merita.
L'opera fa parte di un grande impianto romanzesco a cui Giorgio Bassani lavorò per circa quarant'anni e che comprende anche “Dentro le mura”, “Dietro la porta”, “L'airone”, “Gli occhiali d'oro” e “L'odore del fieno”, testi non strettamente connessi, ma che presentano una comune simbologia poetica e un'ambientazione che costituisce anche una metodologia di osservazione degli eventi storici, con una Ferrara quasi mitizzata, dalle ampie e silenziose strade, con una vena di esile malinconia che riflette tuttavia il piacere di un vivere in un mondo quasi a sé, fra nebbie perlacee che tutto celano e che lasciano scoprire all'improvviso case, mura, alberi, affinché lo stupore della visione si accompagni alla quiete silente di una provincia quasi fuori dal tempo.
Questa atmosfera è descritta benissimo ne Il giardino dei Finzi Contini, un romanzo che sorge e cresce sul filo del ricordo. Raramente mi è accaduto di immergermi inconsapevolmente in un ambiente, di sentirmi parte della narrazione, come se dietro l'io narrante ci fossero tutti i nostri sentimenti, i nostri sogni di una vita quieta, lontana da ogni clamore, come se gli eventi del mondo fossero lontani anni luce.
E se nel prologo ci sono le immagini di una necropoli etrusca, che portano a una riflessione sulla morte, non atroce, ma malinconica, come un evento ineluttabile che chiude la vita, pure il romanzo inizia con la descrizione del cimitero ebraico di Ferrara, quasi a prendere atto che tutto ha un termine, fugando così il naturale timore della dipartita.
Anche nella tragedia della famiglia dei Finzi Contini, distrutta nei campi di sterminio, non c'è traccia di orrore, non c'è ansia atroce, ma solo il mesto ricordo di un amore giovanile perduto per sempre.
In questo senso è assai emblematico il personaggio di Micol Finzi Contini, la fanciulla di cui l'io narrante è perdutamente innamorato senza che tuttavia lo dimostri apertamente, perché le decisioni, nel mondo ovattato e sospeso del giardino dei Finzi Contini, non devono esserci. Sarebbe, infatti, un ritornare sulla terra, affrontando una realtà che spesso non è piacevole.
Quanti giardini ci sono nel nostro animo, quanti rifugi irreali in cui nei momenti di difficoltà ci piace adagiarci per fuggire il quotidiano!
Ecco, l'invito a leggere questo romanzo, di una delicatezza e di un pudore incredibili, è d'obbligo, perché alla fine, quando il protagonista rinuncia a Micol, sarà per tutti chiaro che il sogno non è un comodo rifugio e che la realtà, tutto sommato, è l'unica prova della nostra esistenza, pur con il suo carico di dolori, ma anche di brevi gioie.
Ultime recensioni inserite
La fossa dei lupi, o come proseguono I promessi sposi - Ben Pastor
Devo ammettere che ero convinto che Ben Pastor avrebbe continuato a scrivere romanzi storici con protagonista il militare romano Elio Sparziano, l´ultimo dei personaggi da lei creati dopo il celeberrimo ufficiale dell´Abwehr Martin von Bora e la non riuscita coppia di investigatori Kaael Heida e Solomon Meisl. Infatti, visto il successo incontrato con la serie dell´inviato speciale dell´imperatore e considerato anche con l´età non è facile cambiare, tutto mi sarei aspettato tranne che un libro con un nuovo protagonista. Tuttavia, la cosa deve essere stata studiata bene, cercando di fare in modo che l´impatto con i lettori fosse subito positivo, partendo da una storia che più conosciuta di così non può essere e mi riferisco a I promessi sposi di Alessandro Manzoni. Del resto credo che non a pochi, ultimata la lettura del libro dello scrittore milanese, sia rimasta la curiosità di sapere come la vicenda sarebbe potuta proseguire, cioè che fine avrebbero potuto fare Renzo, Lucia, Don Abbondio, l´Innominato, e a questo ha provveduto Ben Pastor, ambientando la trama del suo nuovo romanzo nell´anno 1628.
Il libro comincia con il ritrovamento del corpo dell´Innominato (al secolo Bernardino Visconti) morto ammazzato con un colpo d´arma da fuoco. Incaricato delle indagini è il Luogotenente di giustizia a Milano Diego Antonio Sarria De Olivares, spagnolo per parte di padre, mentre la madre è italiana, circostanza non inconsueta, stante il dominio spagnolo.
Il nuovo personaggio è particolare, perché ha la vocazione di diventare un religioso, un gesuita, tanto da ufficializzare la scelta con una reciproca promessa fatta con la sorella Sibilla, che ha già preso i voti con il nome di Suor Cattarina.
La vicenda è del tutto particolare e anche intricata, l´indagine si mostra subito difficile, ma alla fine, dopo non pochi patemi d´animo e di colpi di scena giunge alla conclusione, assicurando alla giustizia il non improbabile colpevole.
Direi che l´ aspetto poliziesco è un puro pretesto per imbastire un romanzo che è la descrizione della Milano e dintorni dell´epoca, un ritratto di pregevole fattura che non si limita alla necessaria scenografia, ma che riporta le atmosfere di una città dominata dallo straniero e da poco uscita dall´epidemia di peste. Questo, tuttavia, che pur sarebbe molto, è opportunamente integrato da una vicenda amorosa del De Olivares con la ricca vedova di Don Ottaviano Gallarati e cioè Donna Polissena De´ Stampi. Affascinante, erudita, la donna poco a poco attira in una ragnatela il Luogotenente e lo strappa alla vita religiosa che si era prefissato, ma che, essendo poca la vocazione, non aveva mai intrapreso.
Dalla penna di Ben Pastor esce così un romanzo che è molto piacevole, nonostante un certo ritmo lento, che però l´epoca giustifica, un libro in cui si entra poco a poco e che diventa sempre più avvincente, pagina dopo pagina, al punto che arrivati al termine si desidera che abbia un seguito e questo mi sembra sia la prova migliore della felice scelta del nuovo protagonista.
Da leggere, ovviamente.
La compagnia del gelso - Franco Faggiani
Di questo autore avevo letto in precedenza Non esistono posti lontani, la cui trama è un viaggio attraverso l´Italia nel corso della seconda guerra mondiale, con due personaggi indovinati che danno vita ad avventure picaresche e a situazioni a volte esilaranti. Mi era abbastanza piaciuto, proprio per questa attitudine a divertire il lettore, senza porgli tanto problemi, insomma un libro di puro svago. Questo che invece ho finito di leggere da poco si avventura nel mondo botanico dei gelsi, le cui foglie sono l´alimento dei bachi da seta, con un gruppo di amici che ne hanno combinate parecchie in passato e che ancora ne combinano. Se devo essere sincero mi sono venuti in mente i film della serie "Amici miei", anche se la creatività di Faggiani ha dato vita a una trama senz´altro inferiore, pur restando lo scopo di far ridere. In realtà, vuoi perché i paragoni sono spesso impietosi, vuoi perché, per quanto si sforzi l´autore non è certamente al livello di Stefano Benni o di Giovannino Guareschi, il risultato è però modesto, nel senso che al più mi ha strappato un sorriso. Arrivato alla fine, molto velocemente, ho tirato le conclusioni e ho rilevato che è facile dimenticarsene alla svelta, perché il contenuto è poca cosa e, quanto al divertimento, non mi è parso particolarmente riuscito.
9 agosto 378 - Alessandro Barbero
Il mio approccio con questo storico è avvenuto con 9 Agosto 378 Il giorno dei barbari. Non è un caso se ho optato per questo titolo, ma, così a memoria, ricordo che nei miei studi scolastici la fine dell'impero romano e con esso dell'antichità, con avvio al medioevo, era liquidata in poche pagine, tanto che quasi all'improvviso lo studente apprendeva della divisione dell'impero romano in due entità: quello d'occidente e quello d'oriente; nulla i libri riportavano sul perché di questa divisione e i miei insegnanti nulla aggiungevano, poi cominciavano le invasioni dei barbari, degli Unni, dei Goti, degli Ostrogoti, un susseguirsi di guerre deleterie esposte in un paio di paginette. Era quindi logico il mio desiderio di approfondire, di colmare quelle incolpevoli lacune scolastiche che creavano nella mia mente una situazione confusa, un succedersi di eventi di cui non riuscivo a trovare il filo, come se si fosse trattato di fatti con correlati, ma del tutto autonomi. Devo dire che questo bel saggio di Barbero è pienamente venuto incontro alle mie esigenze, e ciò seguendo un discorso razionale, lasciando ben poco spazio alla fantasia, in modo semplice e accattivante, così che la lettura, oltre che particolarmente istruttiva, mi è risultata facile, per nulla greve, anzi di una particolare e appagante gradevolezza. Insomma si può dire che il professor Barbero scrive come parla in televisione e mi auguro che sia altrettanto chiaro, completo e piacevole quando insegna.
C'è da chiedersi perché è importante questa data, che cosa è accaduto il 9 agosto 378, un giorno tale da restare memorabile. Ebbene si svolse la battaglia di Adrianopoli, città sita nella provincia romana della Tracia, che corrispondeva all'attuale Turchia europea. Lo scontro vide contrapposti da un lato l'imperatore dell'Impero romano d'oriente Valente con il suo ben addestrato esercito e dall'altro Fritigerno con i suoi Goti. L'esito fu fatale ai romani, che vennero pressoché annientati e fra essi anche Valente. Barbero, nel prologo al suo libro, tiene a precisare come questa battaglia comunque non sia famosa come quelle di Waterloo e di Stalingrado, anche se il suo esito finì con il segnare, come opinione anche di altri storici, la fine dell'Antichità e l'inizio del Medioevo. L'autore è molto bravo nel delineare gli antefatti, ponendo in luce le trasformazioni intervenute nell'impero romano, le diversità esistenti fra la parte occidentale e quella orientale dello stesso, la diffusione della religione cristiana fra i barbari, quella religione che era già quella ufficiale nell'impero, ed è altrettanto capace di tratteggiare le conseguenze di questa sconfitta, cioè quella caduta inarrestabile di Roma, al cui tonfo si evidenziò quel periodo da non pochi considerato oscuro, ma che pure aveva anche dei valori non indifferenti, e che viene chiamato Medioevo. Credo di poter dire di essere sostanzialmente in accordo con il pensiero di Barbero, tranne in un elemento non certo da poco: la decadenza. Secondo l'autore l'impero non era certamente in condizioni salde e floride, ma non poteva essere considerato in condizioni di collassare gradualmente. Al riguardo, tuttavia, Barbero cita, dando prova di molta obiettività, in quanto di opinione contraria alla sua, il Gibbon, storico inglese che ha scritto un'opera di grande valore (Declino e caduta dell'impero romano) in base alla quale l'impero, alla vigilia delle famose invasioni barbariche, era un'entità in profonda decadenza. Personalmente sto con Gibbon, perché già da diverso tempo Roma era minata profondamente nella sua struttura da tutta una serie di problemi, alcuni dei quali peraltro evidenziati anche da Barbero, e che la facevano apparire sì come un colosso, ma dai piedi d'argilla. Queste erano le cause: secoli di conquiste e poi la decisione di fermarsi, perché i confini, troppo ampliati, erano difficili da difendere; la penuria nell'esercito di autentici romani che faceva sì che annoverasse nei suoi ranghi soprattutto truppe barbare; un flusso migratorio dalle zone poco civilizzate, agevolato sia per rimpolpare i corpi militari, sia per disporre di mano d'opera a basso costo; l'incertezza del potere, con imperatori che si succedevano con troppa rapidità, imposti dai loro stessi soldati; la diffusione del cristianesimo, che sminuiva la figura dell'imperatore, non più divino, e che cercava di allentare la schiavitù; la corruzione sempre presente a ogni livello; il vizio di mettere nei posti di responsabilità persone solo fedeli, ma spesso incapaci; la crisi economica, con un'inflazione crescente. Messe tutte insieme collaborarono alla disgregazione dell'impero e la battaglia di Adrianopoli è solo il fatto che di colpo mette alla luce una fragilità a lungo nascosta. Ed è strano come la storia si ripeta: spostiamoci di circa 1.600 anni e possiamo rilevare come parte di queste cause sia presente anche oggi, nel nostro Stato, augurandoci che non vi sia un'altra Adrianopoli e che quell'atmosfera da basso impero che si respira venga alla fine fugata. Questo riscontro è un'ulteriore prova di come la conoscenza del passato possa spiegare il presente.
Corredato da un ampio elenco bibliografico, il saggio di Barbero è ampiamente meritevole di essere letto e, sempre per restare in epoca romana, è una lettura talmente piacevole che mi sento di dire che anche per questo, come per pochi altri, vale la locuzione latina jucunde docet.
La rizzagliata - Andrea Camilleri
Povera Italia, verrebbe da dire giunti all'ultima pagina, ma sarebbe più opportuno concludere con un poveri noi.
La rizzagliata, infatti, è un giallo alla Sciascia in cui si rappresenta il diffuso cinismo che sembra soffocare ogni giorno di più quello che un tempo veniva chiamato Il bel paese.
Non troviamo il commissario Montalbano e questo giustamente, perché la denuncia di Camilleri di un'insieme di cose quotidiane a cui ormai ci siamo quasi assuefatti esula da quello che è il semplice romanzo giallo che vede protagonista il simpatico poliziotto (anche se a volte pure lì ci sono allusioni nemmeno tanto velate ai mali attuali). La rizzagliata non è stato scritto per divertire il lettore, ma per avvertirlo, per mostrargli il degrado in cui è immerso e di cui sovente ha solo una vaga consapevolezza. In questo senso può essere anche considerato un romanzo storico, pur nell'ambito di personaggi di esclusiva fantasia, ma il mondo rappresentato, le connivenze e le furberie, gli interessi solo in apparenza contrapposti costituiscono un preciso atto d'accusa a una classe, quella dei politici, che vive una realtà tutta sua, in una sorta di limbo infernale le cui manifestazioni esteriori sono di pubblico dominio, una sorta di rissa in cui gli altri - cioè il popolo - sono ridotti al rango di semplici spettatori.
Se è vero che la rizzagliata è una rete da pesca da cui il pesce difficilmente può scappare, è altrettanto vero che è pressoché impossibile sfuggire alla rete che il potere politico, economico e mediatico costruisce attorno a una persona. Nel libro c'è una costruzione siffatta che, nella sua individualità, può essere tuttavia estesa all'intera collettività, impotente di fronte a un accerchiamento di forze che di fatto ha addormentato le coscienze e nauseato, fin quasi allo sfinimento, chi ancora ha occhi per vedere.
In particolare, nel romanzo l'intreccio esistente fra gli organi di informazione, potere politico, potere economico e potere mafioso portano a un profondo senso di disgusto che è la prova certa di quanto la decadenza a tutti i livelli, compresi quelli familiari, stia corrodendo gli animi, in un trionfo dell'amoralità, in cui tutto viene fatto senza il benché minimo esame di coscienza. E poiché nell'uomo sono naturalmente presenti il male e il bene, nel ridursi ai più bassi istinti finirà sempre con il prevalere, senza battaglia, il male.
Camilleri questa volta ha inteso scrivere un romanzo più impegnato, ha lanciato un grido, per non dire un urlo che chissà se sarà udito. Indubbiamente si nota nello scritto quanto la questione gli stia a cuore, c'è insomma una sua partecipazione emotiva che nuoce un po' all'equilibrio del testo (o forse questo mondo di pazzi, così ben descritto, è squilibrato per sua natura).
La rizzagliata è un piatto freddo, per non dire gelido, un'unica portata per un popolo che sembra non avere più fame di verità. Eppure, a Camilleri va un plauso per la sua incrollabile tenacia che lo porta a condurre, nonostante l'età avanzata, una battaglia che sembra persa in partenza.
Tanto di cappello, quindi, con la speranza che chi leggerà questo eccellente romanzo possa comprenderlo nel suo autentico significato, risvegliando magari una coscienza da troppo tempo sopita.
La vita e i giorni - Enzo Bianchi
L’accostamento all’opera filosofica di Marco Tullio Cicerone non è azzardato, perché lì, come in questo lavoro di Enzo Bianchi, si parla della vecchiaia. Certo sono passati non pochi anni, tanti in verità, da far temere che lo scritto del filosofo romano possa essere superato, ma non è così, perché l’ultimo periodo della vita di un uomo non è diverso da quello di oltre duemila anni fa. All’epoca Cicerone prese in esame le critiche mosse alla vecchiaia (la decadenza fisica, l’attenuarsi dell’attenzione, l’affievolirsi, fino a scomparire, del piacere dei sensi, la paura della morte incombente) per confutarle; sullo stesso percorso si esprime Enzo Bianchi, con un libro di rara profondità e bellezza, scritto in modo facilmente intellegibile, capace di infondere pagina dopo pagina quel senso di serenità che è proprio di chi si rende conto che tutto è nell’ordine delle cose, che si nasce, si cresce, si invecchia e si muore. Quello che è importante, quello che rende la vita irripetibile e appagante è l’umanità, è la consapevolezza che c’è un senso in tutto e che quindi la vecchiaia, e poi la morte, non devono preoccupare. Non ci si deve fare assalire dalla malinconia o peggio ancora dalla tristezza, ma anche i giorni della tarda età devono essere vissuti con piacere e pienamente, non pensando al dopo come quando si era giovani e la morte ben difficilmente entrava nelle nostre riflessioni.
Si avverte chiaramente che è un libro scritto da una persona non giovane (la prima edizione è del 2018 allorché l’autore aveva 75 anni) ed è del tutto naturale che sia così, perché una fresca età cozza con le possibilità di parlare dei problemi connaturati a una tarda età, problemi che non sono univoci, ma che sono riscontrabili, magari in diversa misura, fra quelli che con un pietoso eufemismo si definiscono diversamente giovani.
Sono pagine in cui è facile ritrovarsi (ovviamente questo vale per i vecchi), scritte con tono lieve, ma che anche commuovono, come quando l’autore motiva la decisione di dimettersi nel 2017 da Priore della Comunità di Bose, che lui ha fondato. Al riguardo riporto il periodo: “ Giunta per me la vecchiaia e una maggior stanchezza, ho sentito il desiderio di lasciare la presa, soprattutto di lasciare che le generazioni successive alla mia continuassero con un nuovo soffio un’opera che sarà sempre incompiuta.”(Pagina 133)
Peraltro troviamo in questo libro un’emozione sincera per la vita vissuta e ancora l’entusiasmo per quella da vivere (da pagina 105 “ Grama la vita per i vecchi, comincio a sperimentarlo, anche se resisto e lotto perché voglio vivere la vecchiaia: non aggiungere giorni alla mia vita, ma aggiungere vita ai miei ultimi giorni.”); certo, Enzo Bianchi è un credente e questo lo aiuta non poco, ma le motivazioni, che sono di conforto per chi in tarda età vede crescenti i suoi problemi, sono di una tale umanità che anche l’ateo, o addirittura l’agnostico, non possono che convenire con lui.
Timoroso di trovare un quadro irrimediabile degli anni che mi aspettano, pagina dopo pagina sono stato contagiato dalle riflessioni dell’autore, ho apprezzato le citazioni bibliche sul tema, mi sono reso conto che avanti con gli anni, pieno di acciacchi, sono sempre io, con il corpo che sicuramente porta i segni del tempo, ma alla continua ricerca di ciò che di buono può portare l’età, nella piena consapevolezza che anche l’ultima stagione merita di essere vissuta.
Leggetelo, giovani e vecchi, perché è un libro che vale per tutte le età.
Con la lucerna accesa - Giovanni Telo
E’ con la copertina di questo libro che si presenta il maestro Anselmo Cessi, in una fotografia di classe, la sua classe, i suoi alunni delle elementari, maestro di insegnamento, ma anche maestro di vita, perché mai si piegò, nonostante la dittatura imperante, quel fascismo che non sopportava chi pensava diversamente al punto di bastonarlo, di rinchiuderlo, o peggio ancora di assassinarlo. Maestro di vita lo è stato anche con la sua morte , ucciso vilmente dai “bravi” dell’epoca, e anche questo fu un delitto che restò impunito, e non poteva essere diversamente, perché l’autorità che governava l’Italia ne è stata, anche direttamente, il mandante, e quindi mai avrebbe potuto sconfessare se stessa.
Anselmo Cessi nacque a Castel Goffredo, in provincia di Mantova, il’8 novembre 1877 e divenne, come la madre, maestro di scuola elementare. Nel 1906 si sposò e dall’unione con Erminia Schinelli, pure lei maestra, videro la luce sette figli, di cui cinque morirono da piccoli. Oltre all’attività di insegnante si impegnò anche politicamente, sia pure a livello locale, dapprima come iscritto del partito democratico-cristiano e successivamente nel Partito Popolare di Don Sturzo, ricoprendo vari incarichi. All’avvento del fascismo lo contrastò da subito democraticamente, auspicando sempre la tolleranza e il reciproco rispetto, ma quell’uomo con i baffi, quel maestro così battagliero nel difendere la libertà agli occhi di qualcuno divenne indigesto e con i metodi spicci della marmaglia lo misero a tacere. Fu la sera del 19 settembre 1926, mentre tornava a casa con la seconda moglie (la prima era deceduta) fu assalito da due uomini che lo presero a bastonate; ma non bastava e infatti uno dei due gli sparò un colpo, uno solo, purtroppo mortale.
Giovanni Telò, pure lui nativo di Castel Goffredo, avvalendosi di un’ampia documentazione, ne ha scritto la biografia, evidenziando il carattere e l’indubbia fede religiosa, con uno stile snello, scorrevole, quasi fosse una narrazione. Non si ferma però alla data della morte, ma va oltre con la ricerca dei responsabili, grazie anche alla testimonianza della vedova. Così furono portati alla sbarra Achille Nodari, il podestà, Enrico Bresciani, capomanipolo della Milizia, e Umberto Vescovi, dipendente della Federazione Provinciale del Partito Fascista. Le prove testimoniali quindi non mancavano, ma l’esito del giudizio era scontato in partenza con la piena assoluzione degli imputati.
Benché si tratti di un personaggio strettamente legato al suo territorio, il fatto stesso di essere annoverato fra i martirizzati dal fascismo lo rende già di per sé meritevole di essere conosciuto. Se poi si considera la sua azione, se si tiene presente la figura integerrima e si hanno presenti i suoi ideali, chiara emerge la nobiltà di questo umile maestro di campagna, un uomo libero che amava la libertà anche per gli altri.
Il libro, che merita senz’altro di essere letto, si avvale anche delle presentazioni di Egidio Caporello, vescovo di Mantova, di Mario Beruffi, sindaco di Castel Goffredo, di Filippo Cerini, presidente della Banca di Credito cooperativo di Castel Goffredo, di Neva Campanini, presidente dell’Associazione italiana maestri cattolici – Sezione di Mantova e della prefazione di Giorgio Runi, docente di Storia contemporanea all’Università degli Studi di Milano.
L’opera, corredata da fotografie d’epoca e dalle indicazioni delle indispensabili fonti, è senz’altro meritevole di lettura.
La catena - Emilio Lussu
La catena completa in modo impeccabile la trilogia con cui Emilio Lussu dapprima ha parlato con Un anno sull'altipiano della Grande Guerra, conflitto dal forte impulso nazionalistico e quindi, in un certo senso, propedeutico del fascismo, quindi dell'avvento dello stesso con Marcia su Roma e dintorni e infine del consolidamento della dittatura proprio con l'opera di cui mi accingo a scrivere.
In ogni caso si tratta sempre di esperienze dirette, di vita vissuta, ma mentre il romanzo che si svolge sull'altopiano di Asiago e che è senz'altro uno dei libri di più forte impatto nel denunciare l'insensatezza e l'inutilità della guerra lascia più spazio alla creatività, i due successivi finiscono con il diventare la disamina storica di un periodo che si concluderà, dopo tanti lutti e tragedie, nel 1945.
Mussolini, raggiunto il potere, avverte la necessità di consolidarlo, diventando il padrone assoluto e, come in tutti i regimi totalitari, instaurando il principio secondo il quale o si è con il dittatore, o si è un nemico, da isolare, da rendere inoffensivo tanto da annientarlo. E' di questa fase che parla Emilo Lussu con La catena e che va dall'assalto alla casa dello scrittore di un centinaio di fascisti, a cui lui cercherà di opporsi uccidendone uno, al successivo processo, all'assoluzione combattuta e grazie a giudici onesti, ai provvedimenti del Tribunale Speciale grazie ai quali fu confinato a Lipari, da cui, insieme a Carlo Rosselli e Francesco Nitti riuscì a riparare in Francia con una rocambolesca fuga, che ebbe grande rilievo internazionale e che fu uno smacco per il regime.
Le azioni poste in essere da Mussolini per consolidare la sua posizione, come per esempio alcuni attentati alla sua persona armati dalla sua stessa mano, le nuove leggi che di fatto impedivano qualsiasi opposizione, il funzionamento dei Tribunali Speciali, la difficile esistenza dei confinati, dei loro familiari e dei loro amici danno vita a un quadro talmente orrendo che è lecito chiedersi come oggi ci sia ancora gente che crede nella bontà del fascismo (come del resto, in contrapposizione, ci sono quelli che ancora sognano un ritorno al comunismo staliniano). Il tutto è raccontato in modo notevolmente efficace, perché si è trattato di esperienza diretta e l'atmosfera fosca, cupa che aleggia in quelle pagine e che può intimorire oltre misura il lettore è saggiamente stemperata da una sempre presente ironia, anche se amara.
Senza retorica, senza esaltazione dei propri meriti, Lussu ci ha lasciato una testimonianza indispensabile per comprendere tante cose, anche per capire come per circa un ventennio una intera nazionale, fra partecipazione e più spesso indifferenza, si sia lasciata abbindolare da un uomo che voleva essere il padrone del mondo , ma che era senza qualità e che dal trono su cui si era issato finì appeso per i piedi alle strutture di un distributore di benzina a Milano.
Da leggere, quindi, e magari da inserire nei programmi scolastici.
Le mura di Adrianopoli - Guido Cervo
Sul tema avevo già letto 9 agosto 378 Il giorno dei barbari, un interessante saggio di Alessandro Barbero, e sono stato pertanto curioso, più del solito, di leggere il romanzo storico uscito dalla fertile penna di Guido Cervo. Come immaginavo, il narratore bergamasco si è attenuto fedelmente ai fatti, inserendo opportunamente personaggi e vicende di fantasia, sempre plausibili con un’abilità che gli deve essere riconosciuta.
I Goti, pressati dagli Unni, che non sottomettevano, ma uccidevano, chiesero aiuto ai Romani, in particolare domandarono di entrare nel territorio dell’impero e che fossero loro assegnate delle terre da coltivare, promettendo in cambio di servire militarmente sotto di loro. L’imperatore Valente dimostrò il suo interesse, onde ottenere truppe indispensabili per liberarsi una volta per tutte del pericolo persiano, consentendo ai Goti di varcare il Danubio per entrare così nel territorio romano; finì però con il non rispettare i patti, in particolare anche per la corruzione dei suoi dignitari che rubarono gran parte delle provviste destinate agli immigrati, a cui inoltre riservarono terreni pressoché incoltivabili. Ne derivarono reciproche diffidenze che si concretizzarono ben presto in scontri armati a cui Valente credette di porre rimedio provvedendo a una tregua con i persiani e convincendo Graziano imperatore d’occidente a soccorrerlo con una grande armata. Il destino dei Goti, accampati nei pressi di Adranopoli, sembrava segnato, ma quando si combatte per la propria sopravvivenza si aguzza l’ingegno ed è quel che fece il loro capo Fritigerno, ricorrendo a un’alleanza con gli Ostrogoti e gli Alani, che contribuì ad aumentare considerevolmente gli effettivi delle truppe. Valente, peraltro, era talmente sicuro della vittoria che non attese l’armata di Graziano, anche per dimostrare la sua superiorità, e decise di dare battaglia; in verità ci furono più tentativi per evitare lo scontro, uno addirittura anche sul campo, ma con gli uomini di entrambe le parti a fronteggiarsi per delle ore non era da escludere un incidente, il che avvenne per colpa dei romani, che così diedero inizio alla lotta. I Goti che, contrariamente ai calcoli sbagliati effettuati dagli esploratori imperiali, si rivelarono notevolmente superiori di numero, ben condotti da Fritigerno ebbero ben presto campo vinto. Infatti la battaglia si concluse con un’autentica disfatta dei romani, che fra le moltissime perdite registrarono anche quelle di alcuni generali e dello stesso imperatore Valente.
Da quel 9 agosto del 378 iniziò la caduta inarrestabile del più grande impero della storia, con l’esito infausto di una battaglia che non era altro che la conseguenza di un insieme di problemi che emergevano ogni giorno e ai quali non si voleva, ma anche non si poteva, dare soluzione.
Nel contesto della narrazione di Cervo, intorno al fil rouge storicamente del tutto attendibile, si innestano altre vicende minori che, oltre a dare corposità all’opera, mostrano indirettamente come il grande impero, apparentemente monolitico, avesse i piedi ormai di argilla; si tratta con ogni probabilità di pagine in cui prevale la creatività, ma hanno un peso non trascurabile e costituiscono motivo di ulteriore interesse.
Del resto non si possono che apprezzare lo stile snello, la felice caratterizzazione dei protagonisti, l’ambientazione precisa e la descrizione delle scene di guerra, contrassegnate da una notevole dinamicità, e infine, non meno importante, l’autentica pietà dell’autore per i suoi personaggi meno fortunati.
Le mura di Adrianopoli è un romanzo di notevole bellezza.
La banda dei carusi - Cristina Cassar Scalia
Il vicequestore Vanina Guarrasi riceve una telefonata da Don Rosario Limoli, un sacerdote impegnato, anima e corpo, a recuperare ragazzi tossicodipendenti o facenti parte di certi giri criminali. Sconvolto le comunica l’uccisione di Thomas Ruscica, uno dei suoi carusi, forse il migliore, perché oltre a essere redento era diventato lui stesso un volontario impegnato in analoga attività. Da lì nasce questo romanzo giallo di Cristina Cassar Scalia, oftalmologa sempre più operante nell’ambito della letteratura poliziesca e dato che in pratica si tratta di episodi di una stessa serie si ritrovano sempre i medesimi personaggi: appunto il vicequestore Vanina Guarrasi, donna d’azione, la sua squadra, con tutti i componenti ben delineati, il simpatico ex commissario Patané, da diverso tempo in pensione, ma sempre pronto a fornire il suo intuito, la vicina e padrona di casa Bettina, che, quando fa da mangiare, sembra che prepari il rancio, peraltro eccellente, per un reggimento e tanti altri, che non sto a nominare, ma che sono ricorrenti. Le indagini si presentano complesse e anche confuse, e in questo di suo mette non poco Cristina Cassar Scalia, ma alla fine, fra sospetti, levatacce e anche mangiate pantagrueliche, si arriva alla soluzione, purtroppo poco logica, circostanza non infrequente nella produzione di questa narratrice siciliana. Il suo problema è che si lascia prendere la mano, raccontando di amorazzi vari, di pranzi luculliani, seminando qua e là un numero di indizi eccessivo, così che alla fine salta fuori il colpevole che, se logicamente è in apparenza il meno sospettabile, però è anche vero che appare solo nelle ultime pagine. Certo la narrazione può anche essere utile per costituire un gradevole passatempo per chi legge che, però, finisce con il restare francamente deluso.
Considerato che non è il primo di questa narratrice con questa caratteristica di certo non positiva penso proprio di non leggerne altri.
La tripla vita di Michele Sparacino - Andrea Camilleri
È strano il destino di Michele Sparacino, nato alla mezzanotte tra il 3 e il 4 gennaio del 1898, da famiglia poverissima, con un padre ubriacone e sempliciotto che ha già un bel problema all'anagrafe nel denunciarne la nascita. Sarà il 3 o il 4 gennaio? Risolve il tutto l'impiegato, provocando, però, involontariamente, tutta una serie di conseguenze che non toccano la famiglia del pargolo, ma che si manifestano in sommosse e tumulti, eventi eclatanti che attirano l'attenzione di un giornalista che per farsi bello inventa il Masaniello di turno, attribuendogli per un caso del tutto fortuito il nome di Michele Sparacino. Da allora il vero Michele Sparacino proverà sulla propria pelle cosa voglia dire essere scambiato per un facinoroso, tanto che a militare verrà considerato prima un disfattista, poi connivente con il nemico (siamo nel corso della Grande Guerra) e infine, poiché scompare durante la ritirata di Caporetto, anche un disertore. Il destino però gli ha riservato una sorpresa, lui che in effetti, al di là della nomea immeritata, è sempre stato uno sconosciuto, diventerà ignoto in assoluto, con onori e gloria, quali spettano a chi riposa nell'Altare della Patria.
Si tratta solo di un racconto, ma le finalità di Camilleri non sono tanto quelle di imbastire una storia che si legge con molto piacere, ma vanno ben oltre. In fondo avrebbe potuto intitolarlo le tre vite di Michele Sparacino, ma in tal caso sarebbe venuto meno al suo intento, poiché in effetti la vita di Michele Sparacino è una sola, mentre sono altre e più quelle che gli uomini gli attribuiscono scambiandolo per altra persona e questo nel solco tracciato da un altro grande siciliano, Luigi Pirandello. E tutto questo per un'invenzione giornalistica, il che dimostra come la stampa possa condizionare esistenze, a cui si aggiunge, inevitabile, la visione che ognuno di noi ha di un altro. Così, se Michele Sparacino è stato visto come un capitano di popolo, poi come un soldato con i più gravi difetti per un militare (e che non aveva), cioè disfattista, connivente con il nemico, disertore, anche da morto il suo corpo ha un'altra vita.
Era facile cadere in contraddizioni, perdere il filo del discorso, rendere inverosimile la vicenda, ma Camilleri ha saputo procedere con sicurezza, non disdegnando anche di darci un'immagine dell'autentico Michele Sparacino: un po' ingenuo e un po' furbo, schiacciato tuttavia da chi comanda, un ritratto che si potrebbe estendere tranquillamente alla quasi totalità di noi italiani.
Quindi di carne al fuoco ne ha messo tanta, sia pure in poche pagine, e da abile scrittore quale è non l'ha mai bruciata, anzi ha saputo confezionare un racconto di eccellente qualità e che è indubbiamente meritevole di essere letto.
L'odore del fieno - Giorgio Bassani
Questa raccolta di racconti conclude il grande progetto a cui Bassani ha dato il nome Il romanzo di Ferrara, ma se era lecito attendersi un’opera addirittura migliore delle precedenti, questa costituisce purtroppo una delusione. Nel leggere queste prose si ha l’impressione di trovarsi davanti al lavoro di un autore che nei libri precedenti ha detto tutto quello che si sentiva di dire; carenza di idee, racconti che, mi spiace dirlo, spesso sono banali e che pertanto, in quanto tali, destano ben poco interesse, insomma un qualcosa che sembra raffazzonato e che magari offre anche qualche pagina piacevole, ma che per lo più finisce con l’annoiare. La creatività sembra spenta, perfino l’italiano, non consueto e non corrente, apprezzato in precedenza, qui langue, dando chiara l’impressione di un’evidente forzatura, come se Bassani avesse dovuto scrivere per contratto e non per il piacere di comunicare. Benchè gli argomenti trattati siano diversi, per tutti vale un dimesso grigiore che trascina lentamente e con fatica il lettore fino all’ultima pagina. A onor del vero ci sarebbe un racconto (Pelandra) il cui spunto é notevole, ma che poi si trascina inerte come un semplice fatto di cronaca, per quanto la trama sia tale da meritare una trasposizione ben diversa, magari con un sottile filo di ironia che non è però nelle corde dell’autore e che invece avrebbe potuto risultare assai migliore in ben altre mani, tanto per intenderci quelle di Piero Chiara. Che poi il libro termini con una sorta di appendice (Gli anni delle storie) in cui l’autore cerca di spiegare come abbia potuto scrivere i romanzi e i racconti di Il romanzo di Ferrara non è motivo di particolare attrazione; chi si attendesse chissà quali rivelazioni rimarrebbe francamente deluso, insomma, per dirla in breve, ho finalmente trovato un’opera di questo autore, da me particolarmente stimato, ben poco riuscita, ben al di sotto del livello a lui consueto. Nondimeno le posso attribuire, più che un valore letterario, un valore storico, come completamento di una produzione che ha sempre avuto al centro l’amata città di Ferrara e che può essere considerata una, se pur incompleta, autobiografia.
Ed é per tale motivo che non ne sconsiglio la lettura.
Dietro la porta - Giorgio Bassani
La giovinezza non è sempre primavera di bellezza, anzi può essere un periodo di profonda tristezza interiore, di solitudine riveniente da una inconsapevole auto esclusione. Ed è di quegli anni, anni di studio al liceo, che parla questo delicatissimo romanzo di Giorgio Bassani. É il ricordo che guida la mano del narratore, che descrive con sapienza un microcosmo in cui tutti per un po’ ci siamo trovati, quello scolastico. Il periodo storico va dall’ottobre del 1929 al giugno del 1930, ma ho rilevato che quel mondo di aule, di compagni di classe, di insegnanti era assai simile a quello che ho vissuto io, solo che a dividerci c’era stata una sanguinosa guerra e una lunga ricostruzione; per il resto, gli atteggiamenti dei professori, le piccole gare per riuscire a essere il più bravo, le invidie, le ripicche sono le stesse dei miei anni ‘60 e occorrerà arrivare al famoso ‘68 perché vi sia un radicale e irreversibile cambiamento. Per l’autore è un periodo di sfide tacite, della ricerca di un compagno con cui condividere gli studi e la scelta cade su quello che, senza essere un somaro, non è nemmeno una cima, una sorta di gregario che non potrà mai diventare un pericoloso concorrente nella gara per diventare il più bravo della classe. Inizia così un rapporto in cui la continua frequentazione fa scivolare verso un’intimità sempre più accentuata, che sfiora anche la sfera sessuale nel difficile periodo del passaggio dallo stato infantile, o quasi, a quello adulto. L’io narrante è timido e tende sempre di più a chiudersi a riccio, come a proteggere quell’innocenza dell’infanzia in cui gli piace crogiolarsi. Ma c’è chi matura prima e il nuovo compagno ne è un esempio, e così l’autore apprenderà dolorosamente quanto il presunto amico sfotta quel suo essere ancora non adulto. É allora che diventerà uomo, ma la lacerazione interiore, una sofferenza sorda e muta, lo accompagneranno per tutta vita. La perdita dell’innocenza é la perdita di un mondo che gli pareva eterno e che invece si è squarciato nell’amara realtà delle miserie umane; ciò lo isolerà ulteriormente, impedendogli di aprire quella porta che lo conduca alla consapevolezza di essere parte di una realtà che inconsciamente rifiuta.
Dietro la porta é un autentico gioiello, soffuso, tenue e forte al tempo stesso, frutto di un ricordo che è un grido disperato.
Da leggere, senz’altro.
Gli occhiali d'oro - Giorgio Bassani
L'essere perseguitati in base a una legge perché si è nati ebrei e l'essere emarginati solo perché si è nati omosessuali sono i percorsi quasi paralleli di cui tratta questo romanzo breve di Giorgio Bassani, parte integrante di quel grande progetto letterario che molto opportunamente chiamò Il romanzo di Ferrara.
La vicenda del dottor Fadigati, conosciuto e stimato medico otorinolaringoiatra, con avviato studio in città, può essere solo un pretesto per delineare l'esistenza di chi, per natura o per legge, è definito un diverso, ma è anche emblematica di un falso puritanesimo che al giorno d'oggi farebbe sorridere, ma che negli anni 30', in cui in Italia predominava tanto da sembrare eterno il fascismo, era più che mai radicato. Stimato si è detto questo clinico, almeno fino a quando, pubblicamente, non rivela la propria sessualità, perché allora, all'impietosa luce del sole, si insinua nei cittadini dapprima un senso di scherno e di ilarità e poi una vera e propria emarginazione che si traduce in un calo marcato della clientela dello studio medico, in un isolamento in cui l'interessato avverte colpe che non ha. Non è un caso, poi, che pur non approvando il suo comportamento, l'autore e la sua famiglia non lo evitano, già in procinto di essere considerati pure loro diversi in quanto ebrei. Sintomatico di questo atteggiamento, se non di consenso, almeno di comprensione, è quel puvraz che pronuncia il padre dell'autore, apprendendo, raggiunta la famiglia a Riccione per le vacanze, che quella persona che così tanto stima – e che continuerà a stimare – ha manifestato pubblicamente, con grande scandalo, le sue tendenze accompagnandosi al Grand Hotel con un giovane studente sfaccendato, amico del Bassani. L'amante non è altri che un gigolò, senza alcuna morale, che va con le donne, ma che non disdegna gli uomini quando questa compagnia sia ben fruttifera. Gli spasimi di Fedigati, le sue gelosie, il lento scendere nel baratro sono descritti in modo splendido e con una penna guidata da un grande senso di pietà; sono pagine in cui l'autore riesce a cogliere il tormento dell'esistenza che può avere solo un innamorato tradito e un uomo che avverte palpabilmente un progressivo isolamento, da cui non potrà uscire se non con un gesto estremo, con un suicidio che i giornali di regime faranno passare per incidente. La vicenda si svolge mentre già la stampa comincia ad attaccare gli ebrei, tanto da parlare di imminenti leggi razziali, che di lì a poco in effetti verranno promulgate. L'ansia di questi israeliti, che memori di antiche persecuzioni sono sempre attenti a cogliere sintomi avversi, è ben esposta e procede di pari passo con le chiacchiere e gli atteggiamenti dei ferraresi nei confronti del dottor Fadigati.
Due diversità, dunque, ed entrambe incolpevoli, un senso di graduale afflizione che pervade gli animi, che rende insicuri, un'inconscia sensazione di colpevolezza quando invece colpevoli non si è, incidono le pagine come rasoi, descrivono in un italiano colto e ricercato il passaggio dai timori alla disperazione, condannano senza se e senza ma l'atroce delitto dell'emarginazione, un altro crimine di cui si macchierà il fascismo, incapace di fornire agli italiani un ideale diverso da quello che gli fu proprio, cioè la violenza per la violenza, la discordia civile, il senso dell'inutilità di una vita non libera di essere vissuta.
Non ho altro da aggiungere, salvo che questa piacevolissimo libro, che appaga in tutto e per tutto, lascia alla fine un senso di disorientamento, quasi di incredulità, come se certi fatti – e non dico quelli del romanzo – non possano essere accaduti, quando invece sappiamo che altri ben più gravi avvennero, come l'Olocausto conferma.
vol. 1: Dentro le mura - Giorgio Bassani
Scritti negli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale (tranne uno, il primo della serie, abbozzato nel 1937 ed edito nel 1940) questi cinque racconti ("Lidia Mantovani", "La passeggiata prima di cena", "Una lapide in via Mazzini", "Gli ultimi anni di Clelia Trotti" e "Una notte del '43") furono pubblicati, riuniti in un unico volume, dalla Einaudi nel 1956, ottenendo un immediato successo di critica e di pubblico, coronato nello stesso anno dal conferimento del prestigioso Premio Strega.
Tutte le prose sono accomunate dall'ambientazione (la città di Ferrara) e dalla malinconica consapevolezza che gli italiani amano troppo presto dimenticare, aderendo, spesso inconsciamente, al noto motto chi ha dato ha dato e chi ha avuto ha avuto. Tuttavia, il filo conduttore è costituito dalla opprimente cappa della dittatura fascista in dissoluzione, che vive, negli ultimi anni del conflitto, un rigurgito di violenza, tragica e inutile, come se le teste calde volessero portare con sì nella tomba anche gli altri, cioè quelli non come loro. Da questo punto di vista l'opera presenta l'indiscutibile pregio di farci capire, attraverso delle storie semplici e realmente accadute, come poté capitare che un regime, apparentemente dissolto dopo il 25 luglio del 1943, finisse con il rialzare la testa, dando vita a quello stato fantoccio che fu la Repubblica di Salò. Bassani lo fa parlando della sua Ferrara, terra di grandi squadristi, tra i quali Italo Balbo, e in cui la guerra civile prese avvio con l'eccidio di undici innocenti avvenuta nel novembre del 1943, che l'autore sposta a dicembre.
Ferrara è una città di provincia, a economia agricola, una sorta di grosso paese che l'autore ben conosce e descrive perfettamente, nelle sue strade e nei suoi personaggi, ma che riflette, per estensione, l'intera Italia, così che leggendo quelle pagine si comprendono tante cose, si capisce perché a guerra finita i processi ai criminali fascisti si siano quasi sempre conclusi in una farsa, così che dopo aver sollevato un gran polverone questo sia ritornato ad adagiarsi dove era prima, insomma un po' il concetto del Gattopardo, alla cui pubblicazione l'intervento di Bassani fu determinante.
L'impressione che ho ricavato è che forse ò'autore, con questi suoi racconti, ha inteso dire che la natura del fascismo è innata in noi italiani, menefreghisti, prepotenti, pronti a scendere a qualsiasi compromesso, a cambiar casacca, ma restando sempre noi stessi. L'esperienza degli ultimi settanta anni parrebbe purtroppo dar ragione al narratore ferrarese, confermando ancora una volta che la storia è fatta di corsi e ricorsi e che, contrariamente a quel che si dice, non insegna nulla, o meglio che da essa non impariamo, o non vogliamo imparare nulla.
Da leggere, perché lo merita.
Il giardino dei Finzi-Contini - Giorgio Bassani
L'opera fa parte di un grande impianto romanzesco a cui Giorgio Bassani lavorò per circa quarant'anni e che comprende anche “Dentro le mura”, “Dietro la porta”, “L'airone”, “Gli occhiali d'oro” e “L'odore del fieno”, testi non strettamente connessi, ma che presentano una comune simbologia poetica e un'ambientazione che costituisce anche una metodologia di osservazione degli eventi storici, con una Ferrara quasi mitizzata, dalle ampie e silenziose strade, con una vena di esile malinconia che riflette tuttavia il piacere di un vivere in un mondo quasi a sé, fra nebbie perlacee che tutto celano e che lasciano scoprire all'improvviso case, mura, alberi, affinché lo stupore della visione si accompagni alla quiete silente di una provincia quasi fuori dal tempo.
Questa atmosfera è descritta benissimo ne Il giardino dei Finzi Contini, un romanzo che sorge e cresce sul filo del ricordo. Raramente mi è accaduto di immergermi inconsapevolmente in un ambiente, di sentirmi parte della narrazione, come se dietro l'io narrante ci fossero tutti i nostri sentimenti, i nostri sogni di una vita quieta, lontana da ogni clamore, come se gli eventi del mondo fossero lontani anni luce.
E se nel prologo ci sono le immagini di una necropoli etrusca, che portano a una riflessione sulla morte, non atroce, ma malinconica, come un evento ineluttabile che chiude la vita, pure il romanzo inizia con la descrizione del cimitero ebraico di Ferrara, quasi a prendere atto che tutto ha un termine, fugando così il naturale timore della dipartita.
Anche nella tragedia della famiglia dei Finzi Contini, distrutta nei campi di sterminio, non c'è traccia di orrore, non c'è ansia atroce, ma solo il mesto ricordo di un amore giovanile perduto per sempre.
In questo senso è assai emblematico il personaggio di Micol Finzi Contini, la fanciulla di cui l'io narrante è perdutamente innamorato senza che tuttavia lo dimostri apertamente, perché le decisioni, nel mondo ovattato e sospeso del giardino dei Finzi Contini, non devono esserci. Sarebbe, infatti, un ritornare sulla terra, affrontando una realtà che spesso non è piacevole.
Quanti giardini ci sono nel nostro animo, quanti rifugi irreali in cui nei momenti di difficoltà ci piace adagiarci per fuggire il quotidiano!
Ecco, l'invito a leggere questo romanzo, di una delicatezza e di un pudore incredibili, è d'obbligo, perché alla fine, quando il protagonista rinuncia a Micol, sarà per tutti chiaro che il sogno non è un comodo rifugio e che la realtà, tutto sommato, è l'unica prova della nostra esistenza, pur con il suo carico di dolori, ma anche di brevi gioie.