Preciso da subito che non ci troviamo di fronte a un saggio storico, benché, trattandosi di un diario di quanto accadde in Val d’Orcia nel corso della seconda guerra mondiale, il libro possa assumere almeno la valenza di una testimonianza, utile magari quale parte della documentazione per un lavoro specialistico. E’ però questa natura di resoconto di fatti accaduti e messi su carta dall’estensore a dare un pregio al libro, grazie all’immediatezza che comporta e alla capacità di avvincere il lettore in quanto per nulla noioso.
Iris Cutting, anglo-americana trapiantata a Firenze quando era ancora una bambina, lì conobbe e sposò il marchese italiano Antonio Origo e con lui visse in una grande tenuta agricola di proprietà, La Foce, situata nella pianura toscana. Lì diedero impulso all’attività agricola, avvalendosi di un consistente gruppo di mezzadri, e lì nel 1944 passò la guerra, nel senso che si combatté. Gli anni del diario, tuttavia, sono due, il 1943 e il 1944, periodo di tempo in cui la scrittrice affida al diario le sue ansie, le sue paure e anche le speranze. Ma a rendere queste cronache e questi personaggi (occorre ricomprendere il marito Antonio) particolarmente interessanti c’è anche l’attività assistenziale che praticarono, ospitando un nutrito gruppo di bambini esuli dalle città del Nord sottoposte ai bombardamenti. Ci deve essere però in Val d’Orcia un’aria particolare, perché con l’8 settembre 1943 lì si cominciano ad aiutare i nostri soldati in fuga, i giovani che non si presentano alla chiamata alle armi, i partigiani, i profughi. E l’aiuto non è dato solo dai coniugi Origo, ma anche dai loro contadini, con uno spirito di fraternità invidiabile, nonostante i sacrifici e i rischi a cui vanno incontro. Come scrive Sergio Romano nell’introduzione in Val d’Orcia si verifica un fenomeno del tutto straordinario di grande impegno civile e di eroismo, con una vittoria che vale più di mille guerre vinte, di alcune centinaia di esseri umani che nell’orrore della guerra non sono caduti nell’abbrutimento, ma si sono difesi con le sole armi dell’amicizia, della solidarietà e della dignità.
Da leggere, non c’è dubbio.
Che Napoleone Bonaparte sia stato un personaggio storico di grande interesse è testimoniato dalle numero biografie che lo riguardano; meno scontata è l’attenzione per sua madre, Maria Letizia Ramolino, conosciuta anche come Madame Mère, in quanto genitrice dell’imperatore dei francesi. Scrivere della sua vita, soprattutto di quella condotta dopo la caduta del figlio e il suo esilio a Sant’Elena potrebbe sembrare di scarsa rilevanza, e invece non lo è, e la prova è data da questa sua biografia, uscita dall’abile penna di Edgarda Ferri. Ne scaturisce la figura di una matriarca, una donna dal polso fermo che ama indubbiamente i figli, soprattutto Napoleone, ma che cerca di plasmarli alle sue caratteristiche di persona devota, benché non indulgente, ferma e incrollabile nei suoi propositi. Era nata ad Ajaccio il 24 agosto 1750, allorché la Corsica era parte della Repubblica di Genova; di famiglia nobile convolò a nozze all’età di 14 anni – era incinta – con Carlo Maria Buonaparte, più vecchio di lei di 4 anni. I due ebbero dodici figli, due dei quali nati morti e altri due deceduti in giovanissima età, restando così in vita Giuseppe, Luciano, Luigi, Girolamo, Elisa, Paolina, Carolina e Napoleone, il futuro imperatore dei francesi. Il libro, molto opportunamente, tralascia il periodo dell’ascesa da Generale a Primo Console e poi a Imperatore di Napoleone e, ovviamente con riferimento al tema, quegli anni vissuti da Maria Letizia, sia perché si sarebbe corso il rischio di scrivere un’opera mastodontica, sia perché il personaggio della madre assume particolare importanza nei suoi sforzi per liberare o rivedere i figlio, segregato a Sant’Elena dagli inglesi. Però l’ex imperatore è tenuto in costrizione nell’isola atlantica dal 1815 al 1821, anno della sua morte, ed è proprio questo lasso di tempo che porta alla ribalta la figura e l’opera della Ramolino. Si batterà come una leonessa, bacchettando gli altri figli, i quali nella disgrazia generale pensano più a se stessi che a quel fratello artefice prima delle loro fortune e poi della loro caduta. Tutto il denaro, sia quello in contanti che le aveva lasciato il figlio, sia quello derivante dalla vendita di beni mobili e immobili viene speso con il solo scopo di avere notizie da Sant’Elena e con la speranza, che si affievolisce di anno in anno, di ottenerne la liberazione, magari con un colpo di mano. In questi sei anni le vicende di Letizia e del figlio procedono di pari passo ed è di particolare interesse l’ultimo scorcio di vita dell’imperatore, in pratica un prigioniero anche se all’apparenza ancora riverito, con la dignità che gli resta degli anni felici che acuisce però ancor più il disagio proprio di chi non ha più potere. Alle speranze e alle illusioni di Madame Mére si contrappongono la volontà degli inglesi di isolarlo per sempre e il male in crescendo che lo porterà alla morte (probabilmente un tumore) il 5 maggio 1821. Sua madre tuttavia gli sopravviverà di altri quindici anni, quindici anni a cui Edgarda Ferri dedica quasi metà del libro. Cosa accadde in quel periodo per meritare così tanta attenzione?
Un buon numero di pagine è costituito dalle testimonianze di coloro che erano presenti a Sant’Elena e che in lettere inviate a Madame Mère e ad altri familiari stretti di Napoleone descrivono gli ultimi giorni di vita dell’imperatore e la sua dipartita da questo mondo.
Poi, pur non venendo meno il dolore per la scomparsa di quel figlio che non ha potuto vedere nemmeno da morto, le sensazioni si affievoliscono, subentra una rassegnazione che è anche propria della tarda età, si ingenera una generale sfiducia che porta Letizia a perdere poco a poco la figura di matriarca e oltre ai primi malanni (la cecità) e incidenti della vecchiaia (cade lungo una scalinata rompendosi il femore) si accentuano i dispiaceri per quei familiari così diversi da Napoleone, spendaccioni, pieni di debiti, incapaci di essere perfino l’ombra dell’augusto fratello, ed ecco, come se non bastasse questo quadro desolante, che cominciano i lutti, con strane e improvvise morti. Sembra quasi che una maledizione sia calata su quella famiglia da quel fatale 18 giugno 1815 allorché a Waterloo l’armata francese subì una sconfitta che non fu solo di una battaglia, ma che chiuse una guerra e consacrò un definitivo regolamento di conti con Napoleone. Si potrebbe dire che ormai la vita di Letizia procede stancamente verso la soglia finale, impietrita di fronte alla tragedia familiare. E’ una lunga serie di lutti e così muoiono i nipoti, ma soprattutto dopo una breve vita minata dalla tubercolosi viene a mancare il Re di Roma, Napoleoni Francesco Giuseppe Carlo, il figlio del grande imperatore e di Maria Luisa d’Austria. E’ il 22 luglio 1832 quando il giovane Franz (così era stato chiamato alla corte austriaca) chiude gli occhi per sempre a Vienna, un colpo micidiale per Letizia che sperava sempre di vederlo, illudendosi anche che potesse seguire le gesta del padre, ritornando sul trono in Francia.
Dopo gli anni sono di attesa per il passo fatale e Letizia, ormai ridotta a un lumicino dalla tremula fiamma, si spegne in silenzio, con i parenti lontani, il 2 febbraio 1836. Il suo corpo viene sepolto a Corneto (Tarquinia) nella chiesa delle monache passioniste e da lì nel 1851 sarà traslato nella cripta della cappella imperiale di Ajaccio, fatta costruire da Luigi Napoleone, figlio di Luigi Bonaparte e Ortensia de Beauharnais, diventato imperatore dei francesi con il nome di Napoleone III.
Edgarda Ferri con questa biografia si è superata, perché, sempre brava come in altre occasioni, ha saputo tenere ben distinti i tanti personaggi, dando vita a una narrazione che avvince dalla prima all’ultima pagina. Personalmente ritengo che sia la sua opera migliore fra quelle sue che ho letto, un autentico capolavoro la cui lettura è senz’altro raccomandata.
Nel corso della seconda guerra mondiale la nostra spedizione in Russia a fianco dell’alleato tedesco si concluse tragicamente con una ritirata; in mezzo alla neve e a un freddo polare i nostri soldati patirono le pene dell’inferno e tanti morirono lungo il tragitto, mentre pochi riuscirono a ritornare a casa; altri, catturati dai russi, iniziarono invece un percorso di immani sofferenze che ne falcidiò una buona parte e solo un numero veramente esiguo poté tornare in patria nei mesi successivi alla fine del conflitto.
Nuto Revelli, che visse l’esperienza della ritirata riuscendo a tornare a casa per poi diventare partigiano dopo l’8 settembre del 1943 e che della sua esperienza scrisse un diario (Mai tardi) volle dar voce ai superstiti dei gulag sovietici, intervistandone tanti e riunendo queste testimonianze in questo libro, La strada del davai, dove “davai” vuol dire vai avanti ed era ciò che le guardie russe gridavano agli italiani prigionieri che in lunghe marce forzate cercavano di arrivare alle stazione dove li attendevano i treni per portarli nei campi di concentramento in Siberia.
Ci sono pertanto tante storie quanti sono gli intervistati e nella sostanza si assomigliano un po’ tutte, visto il comune destino; quel che varia però sono i singoli accadimenti e il modo di vedere quanto accaduto da parte degli interessati.
Si tratta di voci che parlano di fame, di membra congelate, di corpi trascinati nella neve, di morti lasciati lungo il cammino, di tanti che decedevano ogni giorni nei carri bestiame che portavano i prigionieri ai gulag. Quindi ciò che sostanzialmente fa la differenza è il punto di vista di questi attori loro malgrado; tutti però concordano sulla straordinaria disponibilità del popolo russo, sempre pronto ad aiutare i nostri e sull’assenza di malvagità delle guardie dei campi di concentramento, circostanze non da poco visto che noi eravamo i nemici.
Per completare le testimonianze della tragica ritirata c’è nel volume una seconda e ultima parte, più contenuta, dedicata a quelli che, come l’autore, sono riusciti a uscire dalla sacca in cui erano stati rinchiusi dalle truppe sovietiche. Benché si possa parlare di fortunati, anche per loro si è trattato di un’esperienza devastante, di cui porteranno il segno tutta la vita.
Il lavoro di Revelli non deve essere stato proprio facile, perché si è trattato di collazionare i risultati di tante interviste, ma per ognuna quel narrare della propria esperienza in prima persona finisce con il coinvolgere il lettore che ritrae l’impressione di avere davanti il narratore, arrivando in alcuni casi a percepire quella sofferenza che ancora riemerge a distanza di diversi anni e che non è solo per quella patita direttamente, ma anche per gli amici, per i tanti che non ce l’hanno fatta e sono rimasti sepolti in terra russa.
Imperdibile.
Nel corso della seconda guerra mondiale l’occupazione del suolo italico da parte dei tedeschi diede luogo a un sistema di terrore analogo a quello che in Europa caratterizzava la presenza delle truppe naziste. In Italia però non c’erano solo i soldati del Reich a compiere atrocità, ma purtroppo altri italiani si macchiarono di analoghi reati e mi riferisco ai membri, a diverso titolo e livello, della Repubblica Sociale Italiana. Per quanto possa sembrar strano, finita la guerra i responsabili di tante efferatezze non pagarono, nel senso che le condanne furono veramente poche, pochissime quelle alla reclusione, ancor meno quelle a morte. In particolare, oltre a un occhio di riguardo di parte della magistratura di nomina fascista, ci pensò anche l’amnistia di Togliatti a dare una mano a questi criminali, ma peggio ancora fu l’insabbiamento di ben 695 fascicoli processuali sui crimini di guerra nazi-fascisti, che in pratica scomparvero dalla Procura generale militare, per poi essere ritrovati nel 1994 in un armadio situato in uno sgabuzzino con le ante appoggiate al muro. Lì c’erano notizie su eccidi, omicidi, saccheggi, con testimonianze e perfino con i nomi dei colpevoli da rinviare a giudizio. Una simile mole di materiale, volutamente occultata, diede la prova che la rappresaglia era una vera e propria tattica terroristica preventiva e che quindi non avveniva, salvo rari casi, come una naturale, seppure esagerata reazione alle azioni dei partigiani.
Il libro di Franzinelli parla organicamente di questi anni di terrore, ma anche di quelli, in cui finito il terrore, si sarebbe dovuto vedere la punizione dei colpevoli, ma invece non fu cosi per diversi motivi, che l’autore evidenzia, e che rappresentano un’ulteriore vergogna per l’Italia.
L’opera è veramente completa ed è articolata secondo un filo logico che si estrinseca in un’ampia trattazione degli eccidi e delle violenze contro la popolazione, per passare poi al periodo inquisitorio immediatamente successivo al 25 aprile 1945, con i processi cosiddetti scomodi, indi per arrivare all’apertura del famoso armadio, con tutti gli scheletri che conteneva, lasciando un’ultima parte ai conti con il passato, purtroppo pochi e incompleti. Come sempre il tutto è corredato da una notevole e precisa documentazione, l’indispensabile per uno storico che scrive sulla base di fatti comprovati e non su voci raccolte qua e là.
Per concludere la mancata punizione dei criminali sia nazisti che fascisti è ancor più vergognosa dell’armadio della vergogna e fa venire in mente la famosa locuzione chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato, come se l’impossibilità di far tornare in vita le vittime di tanta crudeltà potesse chiudere la questione, la cui mancata risoluzione comporta per il nostro popolo, stante l’incapacità di fare i conti con il passato, la possibilità che lo stesso ritorni, con tutte le sue nefaste conseguenze.
Opera prima di Alessandra Selmi, che successivamente si orienterà sul romanzo storico, La terza (e ultima) vita di Aiace Pardon è un giallo, un po’ atipico, ambientato a Milano, incentrato su due indovinati personaggi, il vice sovrintendente di polizia Alex Lotoro e Bianca Acerbi d’Adda, una strana senzatetto che dimora presso la Stazione Centrale e che si reca al commissariato per parlare della scomparsa di “un collega”, Aiace Pardon, che secondo lei è stato ucciso. I due personaggi sono agli opposti, Alex donnaiolo impenitente e anche un po’ frustrato come poliziotto, Bianca una donna particolarmente istruita che rimbecca l’altro continuamente per le sue imprecisioni linguistiche. Peraltro la trama gialla c’è tutta e se proprio devo essere sincero non è male, anzi è in grado di avvincere, benché risulti normalmente confezionata, con dei morti ammazzati, con le indagini e infine con il loro esito per niente illogico. Ripeto che però il valore dell’opera sta nelle differenze dei due personaggi principali e soprattutto nella stranezza di questa clochard, sporca, malvestita e che tuttavia rivela una notevole cultura, oltre a un invidiabile intuito che la porta alla soluzione del caso.
Il romanzo riesce a essere avvincente, tanto che si legge in un “amen” e si arriva alla fine soddisfatti, anche perché come mezzo di evasione, per trascorrere qualche ora in tranquillità, è più che mai idoneo.
Nuto Revelli, uscito dall’Accademia Militare di Modena con il grado di sottotenente, assegnato alla fanteria nel corpo degli Alpini, nel 1942 partì volontario per il fronte russo con la Seconda Divisione Alpina Tridentina, inquadrato nel battaglione “Tirano” del 5° reggimento alpini. Già sulla tradotta per raggiungere i campi di battaglia cominciò a dubitare delle tronfie parole e delle promesse del fascismo, scoprì quanto il nostro alleato tedesco ci disprezzasse, ebbe modo di vedere la triste sorte degli ebrei. Di questi giorni di viaggio, della permanenza in prima linea e della lunga tragica ritirata conservò un diario pressoché giornaliero, scritto con calligrafia minutissima onde risparmiare spazio. A differenza del Sergente nella neve di Mario Rigoni Stern che racconta dello stesso periodo di tempo e dei medesimi luoghi ed eventi, ma in forma di romanzo, pur conservando i fatti nell’esatto accadimento, il diario è naturalmente più succinto, ma anche più immediato, con i periodi snocciolati a raffica che mostrano l’atroce realtà delle cose, senza lasciare spazio a interpretazioni e a riflessioni, solo ciò di cui Revelli fu testimone, una cronaca tesa, asciutta che riesce a rendere con grande efficacia la tragedia di quei giorni. Proprio per questo, appunto perché è una cronaca dei fatti, è di grande impatto sul lettore che vive le continue delusioni per la disorganizzazione del nostro esercito, per le ruberie pressoché istituzionalizzate, per l’incapacità di molti dei comandanti, per la retorica che prevale pressoché sempre sulla logica. Ne esce un quadro aspro, dolente, monta nel lettore la stessa rabbia che doveva aver provato Revelli, unita alla delusione per essersi accorto di aver sempre vissuto prima nella menzogna imposta da un regime in disfacimento.
Soprattutto la ritirata nella neve, con un freddo polare, fa diventare i superstiti, il cui numero si assottiglia sempre di più, dei dannati che si aggirano in un girone dantesco, in una bolgia in cui le colonne degli sbandati si ostacolano a vicenda e dove resiste ormai in pochi l’umana pietà. E’ un si salvi chi può in una marcia che lascia dietro di sé veicoli incidentati, armi e zaini, corpi e anche morenti, a cui non è possibile prestare il minimo soccorso.
In questo quadro è inevitabile che non si creda più al fascismo, lo si consideri colpevole dello sfacelo, si comincino a odiare i profittatori che sono presenti anche in quei tragici giorni, monti un odio implacabile nei confronti dei tedeschi, che considerano i nostri soldati semplicemente dei servi, nei cui confronti usare a piacimento tante prepotenze.
Nuto Revelli riuscirà a uscire dalla sacca in cui lui e gli altri erano accerchiati, tornerà in Italia e già nel 1946, a guerra finita e dopo un’esperienza di grande Partigianato, prenderà di nuovo in mano questo diario e lo farà pubblicare con il titolo Mai tardi Diario di un alpino in Russia, perché tutti, soprattutto quelli che non c’erano, non solo potessero, ma dovessero sapere.
Da leggere.
Quella vena malinconica che ho percepito durante la lettura di Sulle rive dei fossi trova conferma anche in questa raccolta, Fiori di campo, prima pubblicazione dell’autore avvenuta nel 2016. Pure qui si intrecciano ricordi e visioni della natura e con ogni probabilità sono i primi a segnare l’amarezza che sta alla base dei versi (E così te ne sei andata, / rannicchiata e piccola in un letto bianco / di un ospedale prefabbricato, / azzurro e anonimo, / tra filari pioppi schierati, / perso in una campagna / fervente di coltivazioni e trattori. / ….). Si tratta di una visione non certo lieta, perché se la morte, che è naturale nel ciclo della vita, non può mai ispirare allegria, quella atmosfera asettica data dal tipico letto d’ospedale porta già in sé il freddo della fine, toglie ogni calore che un sentimento può comunicare; più che la tristezza per la dipartita colpisce l’abbandono, questo ospedale prefabbricato, anonimo, tra i filari schierati come quelli dei viali che portano ai camposanti, isolato un una campagna dove l’unica vita sembra essere quella produttiva dell’uomo.
Ritengo poi che anche in Ciliegio sia presente quella figura femminile (che nella prosecuzione della lettura scoprirò essere la madre) che nel letto d’ospedale è piccola e rannicchiata, come un passerotto implume, raccolto in se stesso nel momento del trapasso. In questa poesia si rammenta - bellissimo connubio di natura e memoria - questa figura, colta in un normale atteggiamento ( Davanti alla finestra guardavi / l’aia assolata, il tuo orto / che curavi con passione / e mille segreti, / ma soprattutto quel maestoso ciliegio , / coperto di fiori ad ogni primavera. / …). La tenerezza con cui il ricordo è rievocato mi ha ha confermato che si tratta della mamma, come comprovato anche dai successivi versi (.../ Poi un giorno / nemmeno la sedia a rotelle / è bastata più / a a tenerti abbarbicata / alla povera casa di sempre. / / “Sai mamma, là ti cureranno, / qui non hai i mezzi / poi tornerai.../…). E’ una pietosa bugia che un figlio si porta appresso sperando solo che la genitrice gli abbia creduto, ma generalmente lei fa finta di crederci, sa che di più non è possibile, che la vita fugge inesorabile e vorrebbe che non corresse per il figlio. E quasi a chiudere il cerchio del discorso con Memoria si arriva all’ultima dimora (Non amo i cimiteri di città, / l’incessante andirivieni, / i pettegolezzi rumorosi, / i monumenti sontuosi, / fiera della vanità. /... / Amo questo camposanto, / delimitato da una bassa muraglia, / sprofondato nella campagna, / contornato da campi di grano, / in vista del fiume, /…).Ecco come può essere addolcita la morte, con una visione agreste, con un paesaggio, che, pia illusione, si spera che il defunto possa apprezzare, perché comune a ciò che vedeva in vita. E’ proprio in questo connubio fra ricordo e natura che si ritrova la sacralità della morte, quella ritualità interiore che sembra oggi ormai persa e che tanto invece era propria di una società in cui il sentimento non era esibizione, ma un’intima emozione che solo lo sguardo lasciava trapelare. Di questo mondo passato è evidente il rimpianto, tanto maggiore a chi si lega ai cicli immutabili della natura, che è la primigenia fonte di ispirazione, purché si sia capaci di osservarla.
Poiché si tratta con ogni probabilità delle prime poesie scritte non mi meraviglia questo intimo dolore per una scomparsa, perché mettere giù dei versi è anche un modo per elaborare il lutto, è uno sfogo con cui si prende coscienza di un evento irreparabile ed è naturale un accentuato lirismo, che poi non ho ovviamente riscontrato nella successiva silloge Sulle rive dei fossi, proprio perché l’assimilazione del lutto si è conclusa. Pur in presenza degli inevitabili limiti derivanti da una naturale inesperienza devo tuttavia rilevare come la struttura delle poesie sia già bene impostata e come i riferimenti alla natura costituiscano già un elemento qualitativo più che apprezzabile (.../ Ruotano le stagioni, / cambiano i colori, / mutano i suoni, / si alternano i silenzi, / così diversi, uguali mai. / ….). Ne discende quindi che la lettura di questa raccolta è più che gradevole, tanto che è sicuramente consigliata.
Forse sono più note le violenze perpetrate dai goumier marocchini dopo lo sfondamento della linea Gustav, avvenuto nel maggio del 1944, probabilmente per effetto di quel capolavoro di cinematografia italiana che risponde al nome di La Ciociara. Purtroppo questi soldati dell’Africa del Nord si comportarono così in Italia ovunque furono impiegati, in pratica dalla Sicilia alla Toscana, e a farne conoscenza per primi e a sopportarne le violenze furono proprio i siciliani, soprattutto donne di qualsiasi età, dalla bambina alla vecchietta, ma non furono risparmiati nemmeno gli uomini, in particolare i giovinetti.
In pratica quasi tutta la penisola ebbe a conoscere l’orrore delle marocchinate, un neologismo che potrebbe indurre a credere a fatti di poca importanza e invece si trattò di un fenomeno rilevante, che ebbe pesanti conseguenze su chi ne fu vittima: malattie veneree, danni fisici, a seguito di percosse e altro, turbe psichiche, e in non pochi casi dopo circa nove mesi il frutto dello stupro.
Di quel che accadde in Sicilia (correva l’estate del 1943 e l’isola era teatro di grandi combattimenti dopo lo sbarco degli alleati che avevano dato vita all’operazione Husky), in particolare a Capizzi, un piccolo centro dei Nebrodi, viene raccontato in Le ciociare di Capizzi, un libro con cui Marinella Fiume, sempre dalla parte delle donne, parla del terrore diffuso da queste truppe marocchine, che non si accontentavano di rubare, ma usavano anche violenza alle donne e ai giovinetti. A raccontare verbalmente alla scrittrice siciliana quei fatti non sono le vittime, che molto spesso hanno preferito tacere, per pudore, ma anche per sconforto, bensì le nipoti, che hanno saputo dalle nonne, perché quel silenzio osservato in pubblico non c’è stato ovviamente in privato, un po’ per uno sfogo da femmina a femmina, un po’ per mettere in guardia le discendenti da ipotetici, ma non infondati pericoli.
Grande merito di Marinella Fiume è non aver generalizzato, non avere insomma intavolato uno spirito razzista, preferendo invece la ricerca del contesto e delle responsabilità, da ascrivere queste ai comandanti francesi, che in pratica diedero carta bianca a gente che veniva da tribù in cui la violenza poteva considerarsi lecita. A ciò inoltre si deve aggiungere che le lamentele rivolte ai comandi alleati, con la preghiera di far cessare le violenze, rimasero inascoltate. Per fortuna ci furono i siciliani che si difesero e non pochi di questi taglia gole non ritornarono più in Africa, uccisi con bastonate, oppure evirati e poi sepolti ancora vivi.
In questo contesto assume particolare valenza uno studio sociologico di queste popolazione marocchine per comprendere il perché del loro comportamento; è fin troppo evidente che c’era una base costituita da convinzioni ataviche sui diritti assoluti dei combattenti, ma proprio per questo chi di dovere avrebbe dovuto limitarli e non lo fece, il che equivalse a una tacita autorizzazione a consentire gli eccessi. Del resto, proprio nella stessa seconda guerra mondiale, si fecero notare, usando sistematicamente violenza alle donne tedesche, anche i russi, che, guarda caso, stanno mostrando analoghi comportamenti anche in Ucraina, nel corso di questo conflitto, segno che c’è probabilmente un’attitudine al riguardo, che però i comandanti si guardano bene dal contrastare.
E’ un libro che Marinella Fiume ha sentito in modo particolare, sia per la sua costante politica volta al riscatto femminile, sia perché fra tutti gli abusi di cui sono vittime le donne quello sessuale è il più grave, è quello che lascia strascichi pesanti che non scompariranno mai. In particolare è riuscita, pur conservando l’anonimato delle interlocutrici, a dare voce a chi voce non ha più, ma soprattutto, senza giustificare i marocchini autori di violenze, poveri selvaggi utilizzati militarmente per la loro capacità di usare nel migliore dei modi il pugnale, è stata capace di alzare il dito accusatore verso chi ha permesso questo, vale a dire i comandi alleati, sovente inclini a considerare gli italiani inferiori e fra questi, ancor più inferiori, i siciliani. Completa questo interessante saggio storico un’appendice di Maria Pia Fontana dal titolo Una prospettiva psicosociale sugli stupri di guerra, un’analisi attenta sulle cause e sugli effetti delle battaglie sul corpo delle donne.
Se a parlare, per interposta persona, sono le abusate di Capizzi, il fenomeno è però molto più esteso, così che si tratta di uno studio sulla violenza dei maschi nei confronti delle femmine nel corso delle guerre.
Da leggere, senza dubbio.
Winesburg, Ohio è una raccolta di racconti di Sherwood Anderson pubblicata nel 1919, prose che scritte fra il 1915 e 1916 erano già state pubblicare singolarmente su alcune riviste. Vi si narra delle vite di alcuni personaggi della cittadina di Winesburg sul finire del XIX secolo, con un filo conduttore che è rappresentato da George Willard, un giovane giornalista interessato alle vite solitarie di questi individui, secondo uno schema che, pur con le evidenti differenze, può essere assimilato alla famosa Antologia di Spoon River che all’epoca di stesura di questi racconti era già conosciuta grazie alla pubblicazione fra il 1914 e il 1915 su una nota rivista letteraria, il Reedy’s Mirror di Saint Louis.
Tutti i soggetti hanno una doppia vita, del tutto normale e banale quella pubblica, ma nevrotica e caratterizzata da passioni incontrollabili quella privata, peculiarità che sono diventate l’emblema descrittivo degli Stati Uniti, con innumerevoli applicazioni in campo letterario e cinematografico. Per certi aspetti, quindi, il libro costituisce una pietra miliare della narrativa statunitense, rivelandosi precursore di opere successive di diversi romanzieri, fra i quali uno fra i miei preferiti, Kent Haruf. Se lo schema rappresenta una indubbia innovazione, l’originalità delle opere è pure ragguardevole, e trattandosi di racconti è pregevole averli raccordati con la figura del giornalista del locale quotidiano, che accompagna i lettori a far conoscenza con i personaggi di Winesburg.
Il mondo descritto è ancora rurale, di una civiltà preindustriale, un microcosmo osservato nel periodo di passaggio da un’impronta socio-economica all’altra e questo senza dubbio è un altro dei pregi dell’opera. E’ una società lontana nel tempo, che sembra appena uscita dalla guerra civile, con il fascino agreste di un’epoca i cui ritmi erano assai più blandi di quelli che si sono imposti con la civiltà industriale. La piccola comunità di Winesburg è descritta in questo suo cambiamento, fra il desiderio di resistere per non perdere le proprie radici e la speranza di entrare in un mondo migliore, e tutto questo è scritto con garbo, senza enfasi, ma puntuale e conciso in ciò che veramente conta.
I personaggi non sono pochi e per alcuni è naturale affezionarsi, come nel caso di Alice, una donna che invecchia con il ricordo di alcune fugaci ore d’amore, nell’attesa del ritorno di uomo ben sapendo che non avverrà mai, macerandosi nella consapevolezza, che poco a poco prende corpo, di una vita che sarà solo di solitudine. Oppure non si può restare insensibili di fronte alla triste storia di Wash Williams, telegrafista diventato misogino per colpa della moglie. Chi più, chi meno, questi protagonisti hanno una personalità che possiamo riscontrare anche in nostri simili contemporanei e addirittura potrebbe capitare di specchiarci in qualcuno di loro, ma sono tutti esseri pulsanti, che mai si potrebbe credere frutti della creatività di uno scrittore.
Il loro gradimento è lasciato alla sensibilità del lettore che in ogni caso non potrà che convenire sulla notevole capacità dell’autore di effettuare una fine analisi psicologica delle sue creature.
Da leggere.
Siamo portati a leggere i grandi avvenimenti storici, quello che più comunemente viene definita la Grande Storia, perché, a parte l’indubbio desiderio di conoscenza, si arriva più velocemente a un accrescimento culturale. E’ così che guerre, personaggi determinanti e significativi, e altri fatti entrano nei libri che sono maggiormente diffusi. Ci sono però altri eventi assai meno noti e che pur tuttavia sono di aiuto per uno studio della storia, sono fatti locali, dissidi o anche addirittura liti che, se studiati e portati alla ribalta, concorrono a una maggior conoscenza di un’epoca. E’ questo il caso di Il commissario e l’arciprete, un saggio che ha scritto Ernesto Flisi dopo approfondite e immagino lunghe ricerche presso l’Archivio di Stato di Mantova e l’Archivio Storico Diocesano di Cremona. Il fatto di cui l’autore scrive non è forse eclatante per la nostra attuale mentalità, ma per quella esistente all’epoca (il tutto si svolge fra il 1849 e il 1862) è di grande risonanza, perché lo scontro, senza esclusione di colpi, fra un esponente non di basso livello della amministrazione austriaca e un sacerdote finisce con l’essere, anche se apparentemente non lo è, una vera e propria battaglia fra il potere imperiale asburgico che ha iniziato la sua decadenza e una nuova visione, meno autoritaria, di uno stato che inizia a sorgere, quello italiano. Il casus belli è, se vogliamo, poca cosa, è un abuso di potere di Don Antonio Parazzi, parroco di Santa Maria Assunta e San Cristoforo Castello di Viadana, nonché investito di altri incarichi, fra i quali quello di Direttore dell’Orfanotrofio Femminile. Ed è appunto in quest’ultima veste che il religioso, nell’estate del 1856, contravvenendo al regolamento dell’Istituto che prevede che le orfane siano dimesse al compimento del diciottesimo anno, ritiene che sia necessario che vi possano rimanere fino al ventunesimo, e in tal senso mantiene ospite tale Caterina Minari. Pietro Fornoni, Commissario Distrettuale di Viadana, già Commissario Provinciale di Polizia, non è della stessa idea, anzi è decisamente contrario ed inizia così un contenzioso che si trascinerà nel tempo fino alla sconfitta del Fornoni, uomo ligio al potere austriaco, che aveva avuto la stima del maresciallo Radetzky quando questi era Governatore generale del Lombardo-Veneto e che dopo la nostra sfortunata prima guerra di indipendenza aveva avviato una politica estremamente restrittiva, soffocando qualsiasi movimento che avesse anche solo l’apparenza di opporsi all’Austria. Ebbene Fornoni fu uno dei suoi più rigidi esecutori in un periodo in cui condanne detentive ed esecuzioni furono numerosissime. Non sto a raccontare gli sviluppi della vicenda, che vide contrapposte in pratica due fazioni, con reciproci scambi di accuse, anche pesanti (il Fornoni è descritto come un rozzo, e probabilmente lo era, e come un impenitente donnaiolo, e forse non lo era). Don Parazzi di per sé era inattaccabile e allora si coinvolsero quelli che erano a lui vicino. Se agli inizi il comportamento di Fornoni, il cui caso fu sottoposto a indagine, fu ritenuto non criticabile, successivamente, con il pensionamento del vecchio governatore avvenuto il 28 febbraio 1857, a cui subentrò Massimiliano, fratello di Francesco Giuseppe, e che aprì un po’ il pugno di ferro con cui Radetsky aveva fino ad allora amministrato il Lombardo-Veneto, l’azione del commissario fu vista in un’altra luce, anche per effetto del concordato fra Chiesa e impero austriaco con cui si era posto rimedio a non pochi contrasti; il vento non soffiava più a favore del Commissario, ma non se ne accorse fino a quando gli arrivò fra capo e collo la sospensione dall’incarico e successivamente il trasferimento ad altra sede. Non ritornò più a Viadana anche perché, conclusa la seconda guerra di indipendenza, l’Austria perse la Lombardia e parte della provincia di Mantova, fra cui il viadanese. Il Fornoni ne soffrì parecchio, sia per la sconfitta militare dell’impero asburgico che per quella personale nella sua lunga battaglia con l’Arciprete, tanto che, anche perché di salute cagionevole, morì a soli 45 anni.
La vicenda, particolarmente complessa, all’inizio è narrata con un ritmo lento, direi opportunamente lento in modo che il lettore possa prendere conoscenza degli attori principali, poi accelera, con un susseguirsi di tanti colpi di scena degni di un thriller. Questo crescendo appassiona, anche perché si è curiosi di vedere come finisce; in ogni caso non viene mai meno uno schema rigorosamente storico, lasciando pressoché nulla alla fantasia dell’autore, anche se mi sembra di capire che abbia nutrito un po’ di simpatia per il Fornoni. Quindi si è trattato di uno scontro fra una persona rappresentate l’assolutismo e un’altra di spirito liberale, ma anche di una lotta fra Stato e Chiesa, entrambi indubbiamente autoritari, con il primo del tutto rigido, ma con il secondo che non sconfessava, quando necessario, sacerdoti per così dire progressisti, come il Parazzi .
La vicenda è senza dubbio interessante, ma quel che più conta è raccontata veramente bene e in modo tale da avvincere il lettore.
Si tratta indubbiamente di narrativa, anche se in realtà sono prose varie, che vanno dalle memorie alla descrizione di alcuni personaggi particolari, da fatti di cronaca ad acute riflessioni, un campionario di scritti da cui emergono sempre le grandi qualità di scrittore di Piero Chiara. Ce n’è uno, in particolare, intitolato 1945: mezzi di fortuna, con il quale ci racconta un avventuroso viaggio da Luino a Reggio Emilia nell’Italia disastrata dei giorni immediatamente successivi alla Liberazione. Ebbene, se uno vuol rendersi conto di come era il nostro paese in quell’epoca deve assolutamente leggerlo, perché, a parte la descrizione della gente che viaggia come può, con il treno che si ferma, perché il ponte, bombardato, non c’è più e occorre proseguire traghettando con delle barche, c’è quest’aria di provvisorio che si respira a pieni polmoni, con un senso di precarietà che sta volgendo però verso una rinascita, una speranza che permetterà al paese Italia di rialzarsi dopo una guerra disastrosa. E’ certo, comunque, che chi si aspetta le solite prose di Chiara, ambientate a Luino o comunque in piccole realtà, permeate di ironia e capaci non solo di far sorridere, ma anche di ridere, potrebbe restare deluso. Non potrà comunque non apprezzare il tono colloquiale con cui vengono narrati fatti di diversi anni fa, felicemente scelti, perché ci danno più di un’idea di come si vivesse allora.
Un’opera minore? Non direi, perché le qualità dell’autore ci sono tutte, si tratta invece di un lavoro diverso, come diversi sono i generi delle prose di questa raccolta.
Se è pur vero che alcune sono meno interessanti, ce ne sono però altre, come quella di cui ho scritto sul viaggio avventuroso fino a Reggio Emilia, che danno tono e pregio al libro, tanto da consigliarne la lettura.
Con la liberazione avvenuta il 25 aprile 1945 termina la seconda guerra mondiale, ma le catene di odio che si erano sviluppate, soprattutto dopo l’8 settembre 1943, e la sete di vendetta di chi aveva subito torti, era stato torturato, aveva avuto in famiglia dei morti ammazzati dalla soldataglia della Repubblica di Salò, oppure tedesca, reclamavano giustizia, spesso una giustizia fai da te, e altre volte invece più formale, meno iniqua, quando i processi avvenivano davanti ai tribunali del popolo. E’ tuttavia evidente che in uno stato civile non era possibile tollerare questi comportamenti, né era possibile abbandonarsi a una giustizia che sanzionava senza regole ben precise e ispirate all’equità. Fu così che il 22 giugno 1946 l’allora ministro della Giustizia Palmiro Togliatti emanò l’amnistia, con lo scopo di giungere a una pacificazione nazionale, con un colpo di spugna per i reati minori, fermo restando il ricorso al rito processuale per i casi più gravi. L’idea in sé era buona, ma la messa in pratica finì per assolvere anche individui che si erano macchiati di gravi reati, e si è trattato quasi sempre di fascisti, mentre la più ampia severità fu usata contro i partigiani, molti dei quali furono costretti a espatriare, rifugiandosi per lo più nei paesi dell’Europa orientale. Si è trattato di un risultato apparentemente inspiegabile, ma che deve essere visto alla luce della posizione di larga parte della magistratura, che avrebbe dovuto essere preventivamente epurata, stante gli stretti legami con il regime fascista. Peraltro un’operazione di pulizia fra le toghe compromesse, che erano la maggior parte, avrebbe significato la perdita di credibilità nella giustizia e una drammatica penuria di membri degli organi giudicanti. Il risultato fu che ben pochi magistrati furono rimossi dall’incarico, e ne rimasero molti altri, soprattutto nella Cassazione, che erano pervenuti nei ruoli in quanto fedeli al regime. La legge dell’amnistia fu redatta male, presentando dalle origini gravissime lacune e concedendo per la sua applicazione larghissimi margini, insomma una discrezionalità che per giudici fascisti di lungo corso evitò di colpire anche gli autori di reati gravissimi. Mimmo Franzinelli ha scritto al riguardo questo interessante saggio, in cui spiega tutte le problematiche inerenti l’applicazione di una legge fatta francamente con i piedi.
Ulteriore motivo di interesse è dato dall’ultimo capitolo in cui viene effettuata la comparazione tra le misure adottate in vari paesi per punire i criminali di guerra e i collaborazionisti e sanare le amministrazioni pubbliche dalla presenza di personaggi particolarmente compromessi. Ebbene, se si guarda quanto fu fatto in Francia, Norvegia, Danimarca, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Austria, si può ben comprendere come solo in Italia venne concessa completa impunità alla dirigenza fascista. Quindi si può dire che l’amnistia Togliatti riuscì in parte a raggiungere lo scopo di pacificazione nazionale, ma a prezzo di una resa senza condizioni a un nemico peraltro già vinto. L’anomalia sembra tipicamente italiana, ma del resto il nostro paese è quello dove le anomalie sono troppe volte ricorrenti.
Da leggere.
Di Matteo Righetto fino a ora avevo letto solo La stanza delle mele, un romanzo in due parti, di cui la prima interessante, con la seconda però decisamente non riuscita. E’ stato anche per questo che ho voluto conoscere almeno un’altra opera dell’autore e ho scelto L’anima della frontiera, il primo di una trilogia. Purtroppo non sono rimasto soddisfatto, perché non ho capito se questo western alpino sia stato scritto per i ragazzi – ma allora avrebbe alcuni aspetti della trama del tutto inidonei per quell’età -, oppure per gli adulti – e in tal caso presenta non poche ingenuità. La vicenda di questa ragazza che si sostituisce al padre in un’attività di contrabbando del tabacco sta proprio poco in piedi perché le si attribuisce una maturità che per la giovane età non dovrebbe avere e anche un’astuzia non indifferente, salvo poi scivolare sulla cosiddetta buccia di banana. Anche il fatto che il genitore non sia tornato da una sua spedizione annuale e, mancando da tre anni da casa si presume sia morto, potrebbe essere convincente se poi invece il l’uomo non ricomparisse per miracolo a salvare la figlia da un tentativo di violenza. L’assenza è giustificata nel romanzo con i postumi di un ferimento e la convalescenza trascorsa nella casa di un buon samaritano, una soluzione che è ben poco convincente, perché si comprende che non avrebbe potuto dare notizie di sé alla sua famiglia se fosse stato nella foresta amazzonica, ma non a pochi chilometri da casa. Del resto tutta la trama è incongruente e perfino i tentativi di descrivere la natura attraversata, con i boschi e le montagne, mancano di spontaneità, sembrano quadri messi lì perché proprio non se ne poteva fare a meno.
Per concludere non credo proprio che passerò alla lettura degli altri due romanzi della trilogia, perché uno mi è bastato e l’ho letto fino in fondo nella vana speranza che potesse riscattarsi, cercando inutilmente qualcosa che potesse mitigare il mio giudizio negativo.
In contrapposizione a un’epoca come la nostra in cui continuano i flussi migratori dalle terre misere dell’Africa, in passato c’è stata una migrazione al contrario, dalla più evoluta Europa alla selvaggia America del Sud; nel primo caso c’è un’umanità derelitta che è alla ricerca di una dignità di vita, mentre nel secondo erano uomini di mare abbagliati dal miraggio dell’oro. E’ di alcuni di questi navigatori che parla Verde Eldorado, riuscito romanzo di Adrian Bravi, narratore argentino che risiede in Italia e che da tempo ha scelto di scrivere in italiano. Si narra la storia di Ugolino, ragazzo veneziano rimasto orrendamente ustionato nell’incendio della sua casa, tanto che gira con un cappuccio che cela alla vista degli altri il suo volto devastato dalle fiamme, e che, incoraggiato dal padre, amico di Sebastiano Caboto, e che vede così una soluzione del problema di un figlio ormai diventato un peso per la famiglia, prende parte alla spedizione del navigatore veneziano per cercare un passaggio più breve per arrivare alle Molucche, terra di spezie. La trama è quanto di più intrigante si possa trovare al giorno d’oggi, un’avventura che potrebbe richiamare quelle frutto della fantasia di Salgari, ma il cui intento è ben diverso. Ci si può stupire per la bellezza dei paesaggi descritti, per la capacità di trasmettere sensazioni, per l’abilità di emozionare con fatti apparentemente normali, ma non si può sorvolare sull’incontro di due civiltà, ognuna con i suoi pregi e con i suoi difetti, con due mondi che vengono a contatto e che evidenziano il diverso senso da dare alla vita. Infatti per gli indios del Rio de la Plata sono determinanti il rispetto per la natura e l’immersione nella stessa, mentre sono la brama della ricchezza e la materialità che ossessionano i navigatori europei, aspetti antitetici di un viaggio di cui Caboto cambia la destinazione per tentare di arrivare a un mitico Eldorado, per cercare l’irraggiungibile, e il giovane Ugolino ne uscirà trasformato. Catturato con alcuni suoi compagni dagli Indios, dovrà assistere alla loro uccisione, dovrà vedere con orrore le loro carni diventare cibo per questi antropofagi. Lui si salverà perché diverso per il suo viso sfigurato dal fuoco e dall’incontro con i selvaggi cambierà la vita e il destino del giovane veneziano; poco a poco si avvicinerà a questi indios, ne assorbirà le usanze, i suoni e gli odori, cedendo loro in cambio un po’ della sua civiltà. Diventerà l’uomo dei due mondi che cercherà in ogni modo di conciliare, in un’ottica di reciproca integrazione. Alla Città dell’oro non arriverà mai e così anche Caboto, ma l’Eldorado non è lì, è in quel villaggio dove è nata una nuova civiltà.
Verde Eldorado è indubbiamente un romanzo ambizioso, ma riesce a raggiungere in buona parte i suoi scopi; il lettore deve solo stare attento a non lasciarsi trascinare dalla trama avventurosa, a cui può pur tuttavia lasciarsi andare, ma con giudizio; infatti è opportuno fermarsi ogni tanto per riflettere sulla grandiosa opportunità di un mondo nuovo che ci offrono Ugolino e il suo creatore Adrian Bravi.
Papa Giulio II (Albisola, 5 dicembre 1443 – Roma, 21 febbraio 1513), al secolo Giuliano della Rovere, è anche conosciuto come il Papa guerriero, perché, nel periodo del suo pontificato, che va dal 1503 al 1513, promosse numerose guerre per liberarsi dei vari poteri che prevaricavano la sua autorità temporale, e lo fece con la massima determinazione e con il coraggio propri più di un uomo d’armi che di un religioso al comando della Chiesa.
Però avviso che chi si dispone a leggere questo romanzo storico che riguarda appunto Giulio II potrebbe non dico restare deluso, ma arrivato alla fine potrebbe chiedersi notizie sul suo pontificato, perché in queste 384 pagine si parla solo del prima, cioè del periodo che va dal 1471, anno in cui fu eletto al trono di Pietro con il nome di Sisto IV lo zio Francesco della Rovere. E’ pertanto molto indovinato il titolo dell’opera, perché le origini del potere sono quelle degli anni in cui Giuliano della Rovere brigò per diventare il capo della Chiesa. Per quanto si tratti di un romanzo storico l’autrice si è attenuta sempre a fatti veritieri, eventi che sono la testimonianza di un mondo in cui la spiritualità era decisamente messa da parte e nella lotta che vediamo, aspra, con delitti anche, fra Giuliano della Rovere e Rodrigo Borgia c’è tutto un periodo storico che ha caratterizzato l’Italia nella seconda metà del XV secolo, con sullo sfondo altre figure che non sono proprio comparse, come Lorenzo de’ Medici e gli Sforza, in un grande e riuscito affresco che nobilita un lavoro ben strutturato, che non ha mai un momento di cedimento e che avvince dall’inizio alla fine. Fra l’altro c’è tutto ciò che può piacere al lettore, dalla figura carismatica del fraticello Giuliano che arriva a Roma a piedi per assistere all’incoronazione dello zio, che subito mette in pratica il nepotismo nominandolo cardinale insieme ai cugini Pietro e Girolamo Riario, alla sua lunga storia d’amore con Lucrezia Normanni, da cui avrà una figlia, un amore per niente platonico, ma molto carnale. E poi c’è la descrizione della Roma dell’epoca, della guerra fra le famiglie Orsini e Colonna, della miseria diffusa fra i suoi abitanti, dalla morte che, sotto forma di pestilenza, livella tutti. Non manca anche un’analisi psicologica approfondita, a cui non sfugge nessuno dei principali protagonisti, insomma Le origini del potere è un’opera senz’altro riuscita e ci si augura che sia la prima parte, visto che il sottotitolo è La saga di Giulio II, il papa guerriero, e considerato che che appunto il libro finisce con la notizia che quella mattina nel conclave, al primo scrutinio, viene eletto pontefice Giuliano della Rovere, che poi scelse di chiamarsi Giulio II. Era stata una lunga attesa, piena di intrighi, con altri papi prima di lui, ma alla fine tanto aveva brigato che c’era riuscito. Come ogni buona saga sarebbe logico un seguito con un libro sul suo pontificato, che durò dal 1503 al 1513. Tuttavia, non posso esimermi dall’evidenziare la particolare bellezza delle ultime pagine, allorché a fronte del tradimento di un suo compaesano che aveva avviato alla carriera religiosa, pronto a punirlo nel modo più atroce, Giuliano, sentite le motivazioni che tanto gli ricordavano i patimenti e gli affronti subiti da lui stesso in convento, ha un crollo momentaneo, lui che è sempre inflessibile scopre di possedere anche il senso di colpa, tanto da indurlo piangendo a chiedere perdono, graziando altresì quella vittima che era pronta a espiare la sua colpa.
Da leggere, lo merita.
Ultime recensioni inserite
Guerra in Val D'Orcia - di Iris Origo
Preciso da subito che non ci troviamo di fronte a un saggio storico, benché, trattandosi di un diario di quanto accadde in Val d’Orcia nel corso della seconda guerra mondiale, il libro possa assumere almeno la valenza di una testimonianza, utile magari quale parte della documentazione per un lavoro specialistico. E’ però questa natura di resoconto di fatti accaduti e messi su carta dall’estensore a dare un pregio al libro, grazie all’immediatezza che comporta e alla capacità di avvincere il lettore in quanto per nulla noioso.
Iris Cutting, anglo-americana trapiantata a Firenze quando era ancora una bambina, lì conobbe e sposò il marchese italiano Antonio Origo e con lui visse in una grande tenuta agricola di proprietà, La Foce, situata nella pianura toscana. Lì diedero impulso all’attività agricola, avvalendosi di un consistente gruppo di mezzadri, e lì nel 1944 passò la guerra, nel senso che si combatté. Gli anni del diario, tuttavia, sono due, il 1943 e il 1944, periodo di tempo in cui la scrittrice affida al diario le sue ansie, le sue paure e anche le speranze. Ma a rendere queste cronache e questi personaggi (occorre ricomprendere il marito Antonio) particolarmente interessanti c’è anche l’attività assistenziale che praticarono, ospitando un nutrito gruppo di bambini esuli dalle città del Nord sottoposte ai bombardamenti. Ci deve essere però in Val d’Orcia un’aria particolare, perché con l’8 settembre 1943 lì si cominciano ad aiutare i nostri soldati in fuga, i giovani che non si presentano alla chiamata alle armi, i partigiani, i profughi. E l’aiuto non è dato solo dai coniugi Origo, ma anche dai loro contadini, con uno spirito di fraternità invidiabile, nonostante i sacrifici e i rischi a cui vanno incontro. Come scrive Sergio Romano nell’introduzione in Val d’Orcia si verifica un fenomeno del tutto straordinario di grande impegno civile e di eroismo, con una vittoria che vale più di mille guerre vinte, di alcune centinaia di esseri umani che nell’orrore della guerra non sono caduti nell’abbrutimento, ma si sono difesi con le sole armi dell’amicizia, della solidarietà e della dignità.
Da leggere, non c’è dubbio.
Letizia Bonaparte - Edgarda Ferri
Che Napoleone Bonaparte sia stato un personaggio storico di grande interesse è testimoniato dalle numero biografie che lo riguardano; meno scontata è l’attenzione per sua madre, Maria Letizia Ramolino, conosciuta anche come Madame Mère, in quanto genitrice dell’imperatore dei francesi. Scrivere della sua vita, soprattutto di quella condotta dopo la caduta del figlio e il suo esilio a Sant’Elena potrebbe sembrare di scarsa rilevanza, e invece non lo è, e la prova è data da questa sua biografia, uscita dall’abile penna di Edgarda Ferri. Ne scaturisce la figura di una matriarca, una donna dal polso fermo che ama indubbiamente i figli, soprattutto Napoleone, ma che cerca di plasmarli alle sue caratteristiche di persona devota, benché non indulgente, ferma e incrollabile nei suoi propositi. Era nata ad Ajaccio il 24 agosto 1750, allorché la Corsica era parte della Repubblica di Genova; di famiglia nobile convolò a nozze all’età di 14 anni – era incinta – con Carlo Maria Buonaparte, più vecchio di lei di 4 anni. I due ebbero dodici figli, due dei quali nati morti e altri due deceduti in giovanissima età, restando così in vita Giuseppe, Luciano, Luigi, Girolamo, Elisa, Paolina, Carolina e Napoleone, il futuro imperatore dei francesi. Il libro, molto opportunamente, tralascia il periodo dell’ascesa da Generale a Primo Console e poi a Imperatore di Napoleone e, ovviamente con riferimento al tema, quegli anni vissuti da Maria Letizia, sia perché si sarebbe corso il rischio di scrivere un’opera mastodontica, sia perché il personaggio della madre assume particolare importanza nei suoi sforzi per liberare o rivedere i figlio, segregato a Sant’Elena dagli inglesi. Però l’ex imperatore è tenuto in costrizione nell’isola atlantica dal 1815 al 1821, anno della sua morte, ed è proprio questo lasso di tempo che porta alla ribalta la figura e l’opera della Ramolino. Si batterà come una leonessa, bacchettando gli altri figli, i quali nella disgrazia generale pensano più a se stessi che a quel fratello artefice prima delle loro fortune e poi della loro caduta. Tutto il denaro, sia quello in contanti che le aveva lasciato il figlio, sia quello derivante dalla vendita di beni mobili e immobili viene speso con il solo scopo di avere notizie da Sant’Elena e con la speranza, che si affievolisce di anno in anno, di ottenerne la liberazione, magari con un colpo di mano. In questi sei anni le vicende di Letizia e del figlio procedono di pari passo ed è di particolare interesse l’ultimo scorcio di vita dell’imperatore, in pratica un prigioniero anche se all’apparenza ancora riverito, con la dignità che gli resta degli anni felici che acuisce però ancor più il disagio proprio di chi non ha più potere. Alle speranze e alle illusioni di Madame Mére si contrappongono la volontà degli inglesi di isolarlo per sempre e il male in crescendo che lo porterà alla morte (probabilmente un tumore) il 5 maggio 1821. Sua madre tuttavia gli sopravviverà di altri quindici anni, quindici anni a cui Edgarda Ferri dedica quasi metà del libro. Cosa accadde in quel periodo per meritare così tanta attenzione?
Un buon numero di pagine è costituito dalle testimonianze di coloro che erano presenti a Sant’Elena e che in lettere inviate a Madame Mère e ad altri familiari stretti di Napoleone descrivono gli ultimi giorni di vita dell’imperatore e la sua dipartita da questo mondo.
Poi, pur non venendo meno il dolore per la scomparsa di quel figlio che non ha potuto vedere nemmeno da morto, le sensazioni si affievoliscono, subentra una rassegnazione che è anche propria della tarda età, si ingenera una generale sfiducia che porta Letizia a perdere poco a poco la figura di matriarca e oltre ai primi malanni (la cecità) e incidenti della vecchiaia (cade lungo una scalinata rompendosi il femore) si accentuano i dispiaceri per quei familiari così diversi da Napoleone, spendaccioni, pieni di debiti, incapaci di essere perfino l’ombra dell’augusto fratello, ed ecco, come se non bastasse questo quadro desolante, che cominciano i lutti, con strane e improvvise morti. Sembra quasi che una maledizione sia calata su quella famiglia da quel fatale 18 giugno 1815 allorché a Waterloo l’armata francese subì una sconfitta che non fu solo di una battaglia, ma che chiuse una guerra e consacrò un definitivo regolamento di conti con Napoleone. Si potrebbe dire che ormai la vita di Letizia procede stancamente verso la soglia finale, impietrita di fronte alla tragedia familiare. E’ una lunga serie di lutti e così muoiono i nipoti, ma soprattutto dopo una breve vita minata dalla tubercolosi viene a mancare il Re di Roma, Napoleoni Francesco Giuseppe Carlo, il figlio del grande imperatore e di Maria Luisa d’Austria. E’ il 22 luglio 1832 quando il giovane Franz (così era stato chiamato alla corte austriaca) chiude gli occhi per sempre a Vienna, un colpo micidiale per Letizia che sperava sempre di vederlo, illudendosi anche che potesse seguire le gesta del padre, ritornando sul trono in Francia.
Dopo gli anni sono di attesa per il passo fatale e Letizia, ormai ridotta a un lumicino dalla tremula fiamma, si spegne in silenzio, con i parenti lontani, il 2 febbraio 1836. Il suo corpo viene sepolto a Corneto (Tarquinia) nella chiesa delle monache passioniste e da lì nel 1851 sarà traslato nella cripta della cappella imperiale di Ajaccio, fatta costruire da Luigi Napoleone, figlio di Luigi Bonaparte e Ortensia de Beauharnais, diventato imperatore dei francesi con il nome di Napoleone III.
Edgarda Ferri con questa biografia si è superata, perché, sempre brava come in altre occasioni, ha saputo tenere ben distinti i tanti personaggi, dando vita a una narrazione che avvince dalla prima all’ultima pagina. Personalmente ritengo che sia la sua opera migliore fra quelle sue che ho letto, un autentico capolavoro la cui lettura è senz’altro raccomandata.
La strada del davai - Nuto Revelli
Nel corso della seconda guerra mondiale la nostra spedizione in Russia a fianco dell’alleato tedesco si concluse tragicamente con una ritirata; in mezzo alla neve e a un freddo polare i nostri soldati patirono le pene dell’inferno e tanti morirono lungo il tragitto, mentre pochi riuscirono a ritornare a casa; altri, catturati dai russi, iniziarono invece un percorso di immani sofferenze che ne falcidiò una buona parte e solo un numero veramente esiguo poté tornare in patria nei mesi successivi alla fine del conflitto.
Nuto Revelli, che visse l’esperienza della ritirata riuscendo a tornare a casa per poi diventare partigiano dopo l’8 settembre del 1943 e che della sua esperienza scrisse un diario (Mai tardi) volle dar voce ai superstiti dei gulag sovietici, intervistandone tanti e riunendo queste testimonianze in questo libro, La strada del davai, dove “davai” vuol dire vai avanti ed era ciò che le guardie russe gridavano agli italiani prigionieri che in lunghe marce forzate cercavano di arrivare alle stazione dove li attendevano i treni per portarli nei campi di concentramento in Siberia.
Ci sono pertanto tante storie quanti sono gli intervistati e nella sostanza si assomigliano un po’ tutte, visto il comune destino; quel che varia però sono i singoli accadimenti e il modo di vedere quanto accaduto da parte degli interessati.
Si tratta di voci che parlano di fame, di membra congelate, di corpi trascinati nella neve, di morti lasciati lungo il cammino, di tanti che decedevano ogni giorni nei carri bestiame che portavano i prigionieri ai gulag. Quindi ciò che sostanzialmente fa la differenza è il punto di vista di questi attori loro malgrado; tutti però concordano sulla straordinaria disponibilità del popolo russo, sempre pronto ad aiutare i nostri e sull’assenza di malvagità delle guardie dei campi di concentramento, circostanze non da poco visto che noi eravamo i nemici.
Per completare le testimonianze della tragica ritirata c’è nel volume una seconda e ultima parte, più contenuta, dedicata a quelli che, come l’autore, sono riusciti a uscire dalla sacca in cui erano stati rinchiusi dalle truppe sovietiche. Benché si possa parlare di fortunati, anche per loro si è trattato di un’esperienza devastante, di cui porteranno il segno tutta la vita.
Il lavoro di Revelli non deve essere stato proprio facile, perché si è trattato di collazionare i risultati di tante interviste, ma per ognuna quel narrare della propria esperienza in prima persona finisce con il coinvolgere il lettore che ritrae l’impressione di avere davanti il narratore, arrivando in alcuni casi a percepire quella sofferenza che ancora riemerge a distanza di diversi anni e che non è solo per quella patita direttamente, ma anche per gli amici, per i tanti che non ce l’hanno fatta e sono rimasti sepolti in terra russa.
Imperdibile.
Le stragi nascoste - Mimmo Franzinelli
Nel corso della seconda guerra mondiale l’occupazione del suolo italico da parte dei tedeschi diede luogo a un sistema di terrore analogo a quello che in Europa caratterizzava la presenza delle truppe naziste. In Italia però non c’erano solo i soldati del Reich a compiere atrocità, ma purtroppo altri italiani si macchiarono di analoghi reati e mi riferisco ai membri, a diverso titolo e livello, della Repubblica Sociale Italiana. Per quanto possa sembrar strano, finita la guerra i responsabili di tante efferatezze non pagarono, nel senso che le condanne furono veramente poche, pochissime quelle alla reclusione, ancor meno quelle a morte. In particolare, oltre a un occhio di riguardo di parte della magistratura di nomina fascista, ci pensò anche l’amnistia di Togliatti a dare una mano a questi criminali, ma peggio ancora fu l’insabbiamento di ben 695 fascicoli processuali sui crimini di guerra nazi-fascisti, che in pratica scomparvero dalla Procura generale militare, per poi essere ritrovati nel 1994 in un armadio situato in uno sgabuzzino con le ante appoggiate al muro. Lì c’erano notizie su eccidi, omicidi, saccheggi, con testimonianze e perfino con i nomi dei colpevoli da rinviare a giudizio. Una simile mole di materiale, volutamente occultata, diede la prova che la rappresaglia era una vera e propria tattica terroristica preventiva e che quindi non avveniva, salvo rari casi, come una naturale, seppure esagerata reazione alle azioni dei partigiani.
Il libro di Franzinelli parla organicamente di questi anni di terrore, ma anche di quelli, in cui finito il terrore, si sarebbe dovuto vedere la punizione dei colpevoli, ma invece non fu cosi per diversi motivi, che l’autore evidenzia, e che rappresentano un’ulteriore vergogna per l’Italia.
L’opera è veramente completa ed è articolata secondo un filo logico che si estrinseca in un’ampia trattazione degli eccidi e delle violenze contro la popolazione, per passare poi al periodo inquisitorio immediatamente successivo al 25 aprile 1945, con i processi cosiddetti scomodi, indi per arrivare all’apertura del famoso armadio, con tutti gli scheletri che conteneva, lasciando un’ultima parte ai conti con il passato, purtroppo pochi e incompleti. Come sempre il tutto è corredato da una notevole e precisa documentazione, l’indispensabile per uno storico che scrive sulla base di fatti comprovati e non su voci raccolte qua e là.
Per concludere la mancata punizione dei criminali sia nazisti che fascisti è ancor più vergognosa dell’armadio della vergogna e fa venire in mente la famosa locuzione chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato, come se l’impossibilità di far tornare in vita le vittime di tanta crudeltà potesse chiudere la questione, la cui mancata risoluzione comporta per il nostro popolo, stante l’incapacità di fare i conti con il passato, la possibilità che lo stesso ritorni, con tutte le sue nefaste conseguenze.
La terza (e ultima) vita di Aiace Pardon - Alessandra Selmi
Opera prima di Alessandra Selmi, che successivamente si orienterà sul romanzo storico, La terza (e ultima) vita di Aiace Pardon è un giallo, un po’ atipico, ambientato a Milano, incentrato su due indovinati personaggi, il vice sovrintendente di polizia Alex Lotoro e Bianca Acerbi d’Adda, una strana senzatetto che dimora presso la Stazione Centrale e che si reca al commissariato per parlare della scomparsa di “un collega”, Aiace Pardon, che secondo lei è stato ucciso. I due personaggi sono agli opposti, Alex donnaiolo impenitente e anche un po’ frustrato come poliziotto, Bianca una donna particolarmente istruita che rimbecca l’altro continuamente per le sue imprecisioni linguistiche. Peraltro la trama gialla c’è tutta e se proprio devo essere sincero non è male, anzi è in grado di avvincere, benché risulti normalmente confezionata, con dei morti ammazzati, con le indagini e infine con il loro esito per niente illogico. Ripeto che però il valore dell’opera sta nelle differenze dei due personaggi principali e soprattutto nella stranezza di questa clochard, sporca, malvestita e che tuttavia rivela una notevole cultura, oltre a un invidiabile intuito che la porta alla soluzione del caso.
Il romanzo riesce a essere avvincente, tanto che si legge in un “amen” e si arriva alla fine soddisfatti, anche perché come mezzo di evasione, per trascorrere qualche ora in tranquillità, è più che mai idoneo.
Mai tardi - Nuto Revelli
Nuto Revelli, uscito dall’Accademia Militare di Modena con il grado di sottotenente, assegnato alla fanteria nel corpo degli Alpini, nel 1942 partì volontario per il fronte russo con la Seconda Divisione Alpina Tridentina, inquadrato nel battaglione “Tirano” del 5° reggimento alpini. Già sulla tradotta per raggiungere i campi di battaglia cominciò a dubitare delle tronfie parole e delle promesse del fascismo, scoprì quanto il nostro alleato tedesco ci disprezzasse, ebbe modo di vedere la triste sorte degli ebrei. Di questi giorni di viaggio, della permanenza in prima linea e della lunga tragica ritirata conservò un diario pressoché giornaliero, scritto con calligrafia minutissima onde risparmiare spazio. A differenza del Sergente nella neve di Mario Rigoni Stern che racconta dello stesso periodo di tempo e dei medesimi luoghi ed eventi, ma in forma di romanzo, pur conservando i fatti nell’esatto accadimento, il diario è naturalmente più succinto, ma anche più immediato, con i periodi snocciolati a raffica che mostrano l’atroce realtà delle cose, senza lasciare spazio a interpretazioni e a riflessioni, solo ciò di cui Revelli fu testimone, una cronaca tesa, asciutta che riesce a rendere con grande efficacia la tragedia di quei giorni. Proprio per questo, appunto perché è una cronaca dei fatti, è di grande impatto sul lettore che vive le continue delusioni per la disorganizzazione del nostro esercito, per le ruberie pressoché istituzionalizzate, per l’incapacità di molti dei comandanti, per la retorica che prevale pressoché sempre sulla logica. Ne esce un quadro aspro, dolente, monta nel lettore la stessa rabbia che doveva aver provato Revelli, unita alla delusione per essersi accorto di aver sempre vissuto prima nella menzogna imposta da un regime in disfacimento.
Soprattutto la ritirata nella neve, con un freddo polare, fa diventare i superstiti, il cui numero si assottiglia sempre di più, dei dannati che si aggirano in un girone dantesco, in una bolgia in cui le colonne degli sbandati si ostacolano a vicenda e dove resiste ormai in pochi l’umana pietà. E’ un si salvi chi può in una marcia che lascia dietro di sé veicoli incidentati, armi e zaini, corpi e anche morenti, a cui non è possibile prestare il minimo soccorso.
In questo quadro è inevitabile che non si creda più al fascismo, lo si consideri colpevole dello sfacelo, si comincino a odiare i profittatori che sono presenti anche in quei tragici giorni, monti un odio implacabile nei confronti dei tedeschi, che considerano i nostri soldati semplicemente dei servi, nei cui confronti usare a piacimento tante prepotenze.
Nuto Revelli riuscirà a uscire dalla sacca in cui lui e gli altri erano accerchiati, tornerà in Italia e già nel 1946, a guerra finita e dopo un’esperienza di grande Partigianato, prenderà di nuovo in mano questo diario e lo farà pubblicare con il titolo Mai tardi Diario di un alpino in Russia, perché tutti, soprattutto quelli che non c’erano, non solo potessero, ma dovessero sapere.
Da leggere.
FLISI_FIORI_CAMPO - Ernesto Flisi
Quella vena malinconica che ho percepito durante la lettura di Sulle rive dei fossi trova conferma anche in questa raccolta, Fiori di campo, prima pubblicazione dell’autore avvenuta nel 2016. Pure qui si intrecciano ricordi e visioni della natura e con ogni probabilità sono i primi a segnare l’amarezza che sta alla base dei versi (E così te ne sei andata, / rannicchiata e piccola in un letto bianco / di un ospedale prefabbricato, / azzurro e anonimo, / tra filari pioppi schierati, / perso in una campagna / fervente di coltivazioni e trattori. / ….). Si tratta di una visione non certo lieta, perché se la morte, che è naturale nel ciclo della vita, non può mai ispirare allegria, quella atmosfera asettica data dal tipico letto d’ospedale porta già in sé il freddo della fine, toglie ogni calore che un sentimento può comunicare; più che la tristezza per la dipartita colpisce l’abbandono, questo ospedale prefabbricato, anonimo, tra i filari schierati come quelli dei viali che portano ai camposanti, isolato un una campagna dove l’unica vita sembra essere quella produttiva dell’uomo.
Ritengo poi che anche in Ciliegio sia presente quella figura femminile (che nella prosecuzione della lettura scoprirò essere la madre) che nel letto d’ospedale è piccola e rannicchiata, come un passerotto implume, raccolto in se stesso nel momento del trapasso. In questa poesia si rammenta - bellissimo connubio di natura e memoria - questa figura, colta in un normale atteggiamento ( Davanti alla finestra guardavi / l’aia assolata, il tuo orto / che curavi con passione / e mille segreti, / ma soprattutto quel maestoso ciliegio , / coperto di fiori ad ogni primavera. / …). La tenerezza con cui il ricordo è rievocato mi ha ha confermato che si tratta della mamma, come comprovato anche dai successivi versi (.../ Poi un giorno / nemmeno la sedia a rotelle / è bastata più / a a tenerti abbarbicata / alla povera casa di sempre. / / “Sai mamma, là ti cureranno, / qui non hai i mezzi / poi tornerai.../…). E’ una pietosa bugia che un figlio si porta appresso sperando solo che la genitrice gli abbia creduto, ma generalmente lei fa finta di crederci, sa che di più non è possibile, che la vita fugge inesorabile e vorrebbe che non corresse per il figlio. E quasi a chiudere il cerchio del discorso con Memoria si arriva all’ultima dimora (Non amo i cimiteri di città, / l’incessante andirivieni, / i pettegolezzi rumorosi, / i monumenti sontuosi, / fiera della vanità. /... / Amo questo camposanto, / delimitato da una bassa muraglia, / sprofondato nella campagna, / contornato da campi di grano, / in vista del fiume, /…).Ecco come può essere addolcita la morte, con una visione agreste, con un paesaggio, che, pia illusione, si spera che il defunto possa apprezzare, perché comune a ciò che vedeva in vita. E’ proprio in questo connubio fra ricordo e natura che si ritrova la sacralità della morte, quella ritualità interiore che sembra oggi ormai persa e che tanto invece era propria di una società in cui il sentimento non era esibizione, ma un’intima emozione che solo lo sguardo lasciava trapelare. Di questo mondo passato è evidente il rimpianto, tanto maggiore a chi si lega ai cicli immutabili della natura, che è la primigenia fonte di ispirazione, purché si sia capaci di osservarla.
Poiché si tratta con ogni probabilità delle prime poesie scritte non mi meraviglia questo intimo dolore per una scomparsa, perché mettere giù dei versi è anche un modo per elaborare il lutto, è uno sfogo con cui si prende coscienza di un evento irreparabile ed è naturale un accentuato lirismo, che poi non ho ovviamente riscontrato nella successiva silloge Sulle rive dei fossi, proprio perché l’assimilazione del lutto si è conclusa. Pur in presenza degli inevitabili limiti derivanti da una naturale inesperienza devo tuttavia rilevare come la struttura delle poesie sia già bene impostata e come i riferimenti alla natura costituiscano già un elemento qualitativo più che apprezzabile (.../ Ruotano le stagioni, / cambiano i colori, / mutano i suoni, / si alternano i silenzi, / così diversi, uguali mai. / ….). Ne discende quindi che la lettura di questa raccolta è più che gradevole, tanto che è sicuramente consigliata.
Le ciociare di Capizzi
Forse sono più note le violenze perpetrate dai goumier marocchini dopo lo sfondamento della linea Gustav, avvenuto nel maggio del 1944, probabilmente per effetto di quel capolavoro di cinematografia italiana che risponde al nome di La Ciociara. Purtroppo questi soldati dell’Africa del Nord si comportarono così in Italia ovunque furono impiegati, in pratica dalla Sicilia alla Toscana, e a farne conoscenza per primi e a sopportarne le violenze furono proprio i siciliani, soprattutto donne di qualsiasi età, dalla bambina alla vecchietta, ma non furono risparmiati nemmeno gli uomini, in particolare i giovinetti.
In pratica quasi tutta la penisola ebbe a conoscere l’orrore delle marocchinate, un neologismo che potrebbe indurre a credere a fatti di poca importanza e invece si trattò di un fenomeno rilevante, che ebbe pesanti conseguenze su chi ne fu vittima: malattie veneree, danni fisici, a seguito di percosse e altro, turbe psichiche, e in non pochi casi dopo circa nove mesi il frutto dello stupro.
Di quel che accadde in Sicilia (correva l’estate del 1943 e l’isola era teatro di grandi combattimenti dopo lo sbarco degli alleati che avevano dato vita all’operazione Husky), in particolare a Capizzi, un piccolo centro dei Nebrodi, viene raccontato in Le ciociare di Capizzi, un libro con cui Marinella Fiume, sempre dalla parte delle donne, parla del terrore diffuso da queste truppe marocchine, che non si accontentavano di rubare, ma usavano anche violenza alle donne e ai giovinetti. A raccontare verbalmente alla scrittrice siciliana quei fatti non sono le vittime, che molto spesso hanno preferito tacere, per pudore, ma anche per sconforto, bensì le nipoti, che hanno saputo dalle nonne, perché quel silenzio osservato in pubblico non c’è stato ovviamente in privato, un po’ per uno sfogo da femmina a femmina, un po’ per mettere in guardia le discendenti da ipotetici, ma non infondati pericoli.
Grande merito di Marinella Fiume è non aver generalizzato, non avere insomma intavolato uno spirito razzista, preferendo invece la ricerca del contesto e delle responsabilità, da ascrivere queste ai comandanti francesi, che in pratica diedero carta bianca a gente che veniva da tribù in cui la violenza poteva considerarsi lecita. A ciò inoltre si deve aggiungere che le lamentele rivolte ai comandi alleati, con la preghiera di far cessare le violenze, rimasero inascoltate. Per fortuna ci furono i siciliani che si difesero e non pochi di questi taglia gole non ritornarono più in Africa, uccisi con bastonate, oppure evirati e poi sepolti ancora vivi.
In questo contesto assume particolare valenza uno studio sociologico di queste popolazione marocchine per comprendere il perché del loro comportamento; è fin troppo evidente che c’era una base costituita da convinzioni ataviche sui diritti assoluti dei combattenti, ma proprio per questo chi di dovere avrebbe dovuto limitarli e non lo fece, il che equivalse a una tacita autorizzazione a consentire gli eccessi. Del resto, proprio nella stessa seconda guerra mondiale, si fecero notare, usando sistematicamente violenza alle donne tedesche, anche i russi, che, guarda caso, stanno mostrando analoghi comportamenti anche in Ucraina, nel corso di questo conflitto, segno che c’è probabilmente un’attitudine al riguardo, che però i comandanti si guardano bene dal contrastare.
E’ un libro che Marinella Fiume ha sentito in modo particolare, sia per la sua costante politica volta al riscatto femminile, sia perché fra tutti gli abusi di cui sono vittime le donne quello sessuale è il più grave, è quello che lascia strascichi pesanti che non scompariranno mai. In particolare è riuscita, pur conservando l’anonimato delle interlocutrici, a dare voce a chi voce non ha più, ma soprattutto, senza giustificare i marocchini autori di violenze, poveri selvaggi utilizzati militarmente per la loro capacità di usare nel migliore dei modi il pugnale, è stata capace di alzare il dito accusatore verso chi ha permesso questo, vale a dire i comandi alleati, sovente inclini a considerare gli italiani inferiori e fra questi, ancor più inferiori, i siciliani. Completa questo interessante saggio storico un’appendice di Maria Pia Fontana dal titolo Una prospettiva psicosociale sugli stupri di guerra, un’analisi attenta sulle cause e sugli effetti delle battaglie sul corpo delle donne.
Se a parlare, per interposta persona, sono le abusate di Capizzi, il fenomeno è però molto più esteso, così che si tratta di uno studio sulla violenza dei maschi nei confronti delle femmine nel corso delle guerre.
Da leggere, senza dubbio.
Winesburg, Ohio - Sherwood Anderson
Winesburg, Ohio è una raccolta di racconti di Sherwood Anderson pubblicata nel 1919, prose che scritte fra il 1915 e 1916 erano già state pubblicare singolarmente su alcune riviste. Vi si narra delle vite di alcuni personaggi della cittadina di Winesburg sul finire del XIX secolo, con un filo conduttore che è rappresentato da George Willard, un giovane giornalista interessato alle vite solitarie di questi individui, secondo uno schema che, pur con le evidenti differenze, può essere assimilato alla famosa Antologia di Spoon River che all’epoca di stesura di questi racconti era già conosciuta grazie alla pubblicazione fra il 1914 e il 1915 su una nota rivista letteraria, il Reedy’s Mirror di Saint Louis.
Tutti i soggetti hanno una doppia vita, del tutto normale e banale quella pubblica, ma nevrotica e caratterizzata da passioni incontrollabili quella privata, peculiarità che sono diventate l’emblema descrittivo degli Stati Uniti, con innumerevoli applicazioni in campo letterario e cinematografico. Per certi aspetti, quindi, il libro costituisce una pietra miliare della narrativa statunitense, rivelandosi precursore di opere successive di diversi romanzieri, fra i quali uno fra i miei preferiti, Kent Haruf. Se lo schema rappresenta una indubbia innovazione, l’originalità delle opere è pure ragguardevole, e trattandosi di racconti è pregevole averli raccordati con la figura del giornalista del locale quotidiano, che accompagna i lettori a far conoscenza con i personaggi di Winesburg.
Il mondo descritto è ancora rurale, di una civiltà preindustriale, un microcosmo osservato nel periodo di passaggio da un’impronta socio-economica all’altra e questo senza dubbio è un altro dei pregi dell’opera. E’ una società lontana nel tempo, che sembra appena uscita dalla guerra civile, con il fascino agreste di un’epoca i cui ritmi erano assai più blandi di quelli che si sono imposti con la civiltà industriale. La piccola comunità di Winesburg è descritta in questo suo cambiamento, fra il desiderio di resistere per non perdere le proprie radici e la speranza di entrare in un mondo migliore, e tutto questo è scritto con garbo, senza enfasi, ma puntuale e conciso in ciò che veramente conta.
I personaggi non sono pochi e per alcuni è naturale affezionarsi, come nel caso di Alice, una donna che invecchia con il ricordo di alcune fugaci ore d’amore, nell’attesa del ritorno di uomo ben sapendo che non avverrà mai, macerandosi nella consapevolezza, che poco a poco prende corpo, di una vita che sarà solo di solitudine. Oppure non si può restare insensibili di fronte alla triste storia di Wash Williams, telegrafista diventato misogino per colpa della moglie. Chi più, chi meno, questi protagonisti hanno una personalità che possiamo riscontrare anche in nostri simili contemporanei e addirittura potrebbe capitare di specchiarci in qualcuno di loro, ma sono tutti esseri pulsanti, che mai si potrebbe credere frutti della creatività di uno scrittore.
Il loro gradimento è lasciato alla sensibilità del lettore che in ogni caso non potrà che convenire sulla notevole capacità dell’autore di effettuare una fine analisi psicologica delle sue creature.
Da leggere.
Il commissario e l'arciprete - Ernesto Flisi
Siamo portati a leggere i grandi avvenimenti storici, quello che più comunemente viene definita la Grande Storia, perché, a parte l’indubbio desiderio di conoscenza, si arriva più velocemente a un accrescimento culturale. E’ così che guerre, personaggi determinanti e significativi, e altri fatti entrano nei libri che sono maggiormente diffusi. Ci sono però altri eventi assai meno noti e che pur tuttavia sono di aiuto per uno studio della storia, sono fatti locali, dissidi o anche addirittura liti che, se studiati e portati alla ribalta, concorrono a una maggior conoscenza di un’epoca. E’ questo il caso di Il commissario e l’arciprete, un saggio che ha scritto Ernesto Flisi dopo approfondite e immagino lunghe ricerche presso l’Archivio di Stato di Mantova e l’Archivio Storico Diocesano di Cremona. Il fatto di cui l’autore scrive non è forse eclatante per la nostra attuale mentalità, ma per quella esistente all’epoca (il tutto si svolge fra il 1849 e il 1862) è di grande risonanza, perché lo scontro, senza esclusione di colpi, fra un esponente non di basso livello della amministrazione austriaca e un sacerdote finisce con l’essere, anche se apparentemente non lo è, una vera e propria battaglia fra il potere imperiale asburgico che ha iniziato la sua decadenza e una nuova visione, meno autoritaria, di uno stato che inizia a sorgere, quello italiano. Il casus belli è, se vogliamo, poca cosa, è un abuso di potere di Don Antonio Parazzi, parroco di Santa Maria Assunta e San Cristoforo Castello di Viadana, nonché investito di altri incarichi, fra i quali quello di Direttore dell’Orfanotrofio Femminile. Ed è appunto in quest’ultima veste che il religioso, nell’estate del 1856, contravvenendo al regolamento dell’Istituto che prevede che le orfane siano dimesse al compimento del diciottesimo anno, ritiene che sia necessario che vi possano rimanere fino al ventunesimo, e in tal senso mantiene ospite tale Caterina Minari. Pietro Fornoni, Commissario Distrettuale di Viadana, già Commissario Provinciale di Polizia, non è della stessa idea, anzi è decisamente contrario ed inizia così un contenzioso che si trascinerà nel tempo fino alla sconfitta del Fornoni, uomo ligio al potere austriaco, che aveva avuto la stima del maresciallo Radetzky quando questi era Governatore generale del Lombardo-Veneto e che dopo la nostra sfortunata prima guerra di indipendenza aveva avviato una politica estremamente restrittiva, soffocando qualsiasi movimento che avesse anche solo l’apparenza di opporsi all’Austria. Ebbene Fornoni fu uno dei suoi più rigidi esecutori in un periodo in cui condanne detentive ed esecuzioni furono numerosissime. Non sto a raccontare gli sviluppi della vicenda, che vide contrapposte in pratica due fazioni, con reciproci scambi di accuse, anche pesanti (il Fornoni è descritto come un rozzo, e probabilmente lo era, e come un impenitente donnaiolo, e forse non lo era). Don Parazzi di per sé era inattaccabile e allora si coinvolsero quelli che erano a lui vicino. Se agli inizi il comportamento di Fornoni, il cui caso fu sottoposto a indagine, fu ritenuto non criticabile, successivamente, con il pensionamento del vecchio governatore avvenuto il 28 febbraio 1857, a cui subentrò Massimiliano, fratello di Francesco Giuseppe, e che aprì un po’ il pugno di ferro con cui Radetsky aveva fino ad allora amministrato il Lombardo-Veneto, l’azione del commissario fu vista in un’altra luce, anche per effetto del concordato fra Chiesa e impero austriaco con cui si era posto rimedio a non pochi contrasti; il vento non soffiava più a favore del Commissario, ma non se ne accorse fino a quando gli arrivò fra capo e collo la sospensione dall’incarico e successivamente il trasferimento ad altra sede. Non ritornò più a Viadana anche perché, conclusa la seconda guerra di indipendenza, l’Austria perse la Lombardia e parte della provincia di Mantova, fra cui il viadanese. Il Fornoni ne soffrì parecchio, sia per la sconfitta militare dell’impero asburgico che per quella personale nella sua lunga battaglia con l’Arciprete, tanto che, anche perché di salute cagionevole, morì a soli 45 anni.
La vicenda, particolarmente complessa, all’inizio è narrata con un ritmo lento, direi opportunamente lento in modo che il lettore possa prendere conoscenza degli attori principali, poi accelera, con un susseguirsi di tanti colpi di scena degni di un thriller. Questo crescendo appassiona, anche perché si è curiosi di vedere come finisce; in ogni caso non viene mai meno uno schema rigorosamente storico, lasciando pressoché nulla alla fantasia dell’autore, anche se mi sembra di capire che abbia nutrito un po’ di simpatia per il Fornoni. Quindi si è trattato di uno scontro fra una persona rappresentate l’assolutismo e un’altra di spirito liberale, ma anche di una lotta fra Stato e Chiesa, entrambi indubbiamente autoritari, con il primo del tutto rigido, ma con il secondo che non sconfessava, quando necessario, sacerdoti per così dire progressisti, come il Parazzi .
La vicenda è senza dubbio interessante, ma quel che più conta è raccontata veramente bene e in modo tale da avvincere il lettore.
Di casa in casa, la vita - Piero Chiara
Si tratta indubbiamente di narrativa, anche se in realtà sono prose varie, che vanno dalle memorie alla descrizione di alcuni personaggi particolari, da fatti di cronaca ad acute riflessioni, un campionario di scritti da cui emergono sempre le grandi qualità di scrittore di Piero Chiara. Ce n’è uno, in particolare, intitolato 1945: mezzi di fortuna, con il quale ci racconta un avventuroso viaggio da Luino a Reggio Emilia nell’Italia disastrata dei giorni immediatamente successivi alla Liberazione. Ebbene, se uno vuol rendersi conto di come era il nostro paese in quell’epoca deve assolutamente leggerlo, perché, a parte la descrizione della gente che viaggia come può, con il treno che si ferma, perché il ponte, bombardato, non c’è più e occorre proseguire traghettando con delle barche, c’è quest’aria di provvisorio che si respira a pieni polmoni, con un senso di precarietà che sta volgendo però verso una rinascita, una speranza che permetterà al paese Italia di rialzarsi dopo una guerra disastrosa. E’ certo, comunque, che chi si aspetta le solite prose di Chiara, ambientate a Luino o comunque in piccole realtà, permeate di ironia e capaci non solo di far sorridere, ma anche di ridere, potrebbe restare deluso. Non potrà comunque non apprezzare il tono colloquiale con cui vengono narrati fatti di diversi anni fa, felicemente scelti, perché ci danno più di un’idea di come si vivesse allora.
Un’opera minore? Non direi, perché le qualità dell’autore ci sono tutte, si tratta invece di un lavoro diverso, come diversi sono i generi delle prose di questa raccolta.
Se è pur vero che alcune sono meno interessanti, ce ne sono però altre, come quella di cui ho scritto sul viaggio avventuroso fino a Reggio Emilia, che danno tono e pregio al libro, tanto da consigliarne la lettura.
L'amnistia Togliatti - Mimmo Franzinelli
Con la liberazione avvenuta il 25 aprile 1945 termina la seconda guerra mondiale, ma le catene di odio che si erano sviluppate, soprattutto dopo l’8 settembre 1943, e la sete di vendetta di chi aveva subito torti, era stato torturato, aveva avuto in famiglia dei morti ammazzati dalla soldataglia della Repubblica di Salò, oppure tedesca, reclamavano giustizia, spesso una giustizia fai da te, e altre volte invece più formale, meno iniqua, quando i processi avvenivano davanti ai tribunali del popolo. E’ tuttavia evidente che in uno stato civile non era possibile tollerare questi comportamenti, né era possibile abbandonarsi a una giustizia che sanzionava senza regole ben precise e ispirate all’equità. Fu così che il 22 giugno 1946 l’allora ministro della Giustizia Palmiro Togliatti emanò l’amnistia, con lo scopo di giungere a una pacificazione nazionale, con un colpo di spugna per i reati minori, fermo restando il ricorso al rito processuale per i casi più gravi. L’idea in sé era buona, ma la messa in pratica finì per assolvere anche individui che si erano macchiati di gravi reati, e si è trattato quasi sempre di fascisti, mentre la più ampia severità fu usata contro i partigiani, molti dei quali furono costretti a espatriare, rifugiandosi per lo più nei paesi dell’Europa orientale. Si è trattato di un risultato apparentemente inspiegabile, ma che deve essere visto alla luce della posizione di larga parte della magistratura, che avrebbe dovuto essere preventivamente epurata, stante gli stretti legami con il regime fascista. Peraltro un’operazione di pulizia fra le toghe compromesse, che erano la maggior parte, avrebbe significato la perdita di credibilità nella giustizia e una drammatica penuria di membri degli organi giudicanti. Il risultato fu che ben pochi magistrati furono rimossi dall’incarico, e ne rimasero molti altri, soprattutto nella Cassazione, che erano pervenuti nei ruoli in quanto fedeli al regime. La legge dell’amnistia fu redatta male, presentando dalle origini gravissime lacune e concedendo per la sua applicazione larghissimi margini, insomma una discrezionalità che per giudici fascisti di lungo corso evitò di colpire anche gli autori di reati gravissimi. Mimmo Franzinelli ha scritto al riguardo questo interessante saggio, in cui spiega tutte le problematiche inerenti l’applicazione di una legge fatta francamente con i piedi.
Ulteriore motivo di interesse è dato dall’ultimo capitolo in cui viene effettuata la comparazione tra le misure adottate in vari paesi per punire i criminali di guerra e i collaborazionisti e sanare le amministrazioni pubbliche dalla presenza di personaggi particolarmente compromessi. Ebbene, se si guarda quanto fu fatto in Francia, Norvegia, Danimarca, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Austria, si può ben comprendere come solo in Italia venne concessa completa impunità alla dirigenza fascista. Quindi si può dire che l’amnistia Togliatti riuscì in parte a raggiungere lo scopo di pacificazione nazionale, ma a prezzo di una resa senza condizioni a un nemico peraltro già vinto. L’anomalia sembra tipicamente italiana, ma del resto il nostro paese è quello dove le anomalie sono troppe volte ricorrenti.
Da leggere.
L'anima della frontiera - Matteo Righetto
Di Matteo Righetto fino a ora avevo letto solo La stanza delle mele, un romanzo in due parti, di cui la prima interessante, con la seconda però decisamente non riuscita. E’ stato anche per questo che ho voluto conoscere almeno un’altra opera dell’autore e ho scelto L’anima della frontiera, il primo di una trilogia. Purtroppo non sono rimasto soddisfatto, perché non ho capito se questo western alpino sia stato scritto per i ragazzi – ma allora avrebbe alcuni aspetti della trama del tutto inidonei per quell’età -, oppure per gli adulti – e in tal caso presenta non poche ingenuità. La vicenda di questa ragazza che si sostituisce al padre in un’attività di contrabbando del tabacco sta proprio poco in piedi perché le si attribuisce una maturità che per la giovane età non dovrebbe avere e anche un’astuzia non indifferente, salvo poi scivolare sulla cosiddetta buccia di banana. Anche il fatto che il genitore non sia tornato da una sua spedizione annuale e, mancando da tre anni da casa si presume sia morto, potrebbe essere convincente se poi invece il l’uomo non ricomparisse per miracolo a salvare la figlia da un tentativo di violenza. L’assenza è giustificata nel romanzo con i postumi di un ferimento e la convalescenza trascorsa nella casa di un buon samaritano, una soluzione che è ben poco convincente, perché si comprende che non avrebbe potuto dare notizie di sé alla sua famiglia se fosse stato nella foresta amazzonica, ma non a pochi chilometri da casa. Del resto tutta la trama è incongruente e perfino i tentativi di descrivere la natura attraversata, con i boschi e le montagne, mancano di spontaneità, sembrano quadri messi lì perché proprio non se ne poteva fare a meno.
Per concludere non credo proprio che passerò alla lettura degli altri due romanzi della trilogia, perché uno mi è bastato e l’ho letto fino in fondo nella vana speranza che potesse riscattarsi, cercando inutilmente qualcosa che potesse mitigare il mio giudizio negativo.
Verde Eldorado - Adrián N. Bravi
In contrapposizione a un’epoca come la nostra in cui continuano i flussi migratori dalle terre misere dell’Africa, in passato c’è stata una migrazione al contrario, dalla più evoluta Europa alla selvaggia America del Sud; nel primo caso c’è un’umanità derelitta che è alla ricerca di una dignità di vita, mentre nel secondo erano uomini di mare abbagliati dal miraggio dell’oro. E’ di alcuni di questi navigatori che parla Verde Eldorado, riuscito romanzo di Adrian Bravi, narratore argentino che risiede in Italia e che da tempo ha scelto di scrivere in italiano. Si narra la storia di Ugolino, ragazzo veneziano rimasto orrendamente ustionato nell’incendio della sua casa, tanto che gira con un cappuccio che cela alla vista degli altri il suo volto devastato dalle fiamme, e che, incoraggiato dal padre, amico di Sebastiano Caboto, e che vede così una soluzione del problema di un figlio ormai diventato un peso per la famiglia, prende parte alla spedizione del navigatore veneziano per cercare un passaggio più breve per arrivare alle Molucche, terra di spezie. La trama è quanto di più intrigante si possa trovare al giorno d’oggi, un’avventura che potrebbe richiamare quelle frutto della fantasia di Salgari, ma il cui intento è ben diverso. Ci si può stupire per la bellezza dei paesaggi descritti, per la capacità di trasmettere sensazioni, per l’abilità di emozionare con fatti apparentemente normali, ma non si può sorvolare sull’incontro di due civiltà, ognuna con i suoi pregi e con i suoi difetti, con due mondi che vengono a contatto e che evidenziano il diverso senso da dare alla vita. Infatti per gli indios del Rio de la Plata sono determinanti il rispetto per la natura e l’immersione nella stessa, mentre sono la brama della ricchezza e la materialità che ossessionano i navigatori europei, aspetti antitetici di un viaggio di cui Caboto cambia la destinazione per tentare di arrivare a un mitico Eldorado, per cercare l’irraggiungibile, e il giovane Ugolino ne uscirà trasformato. Catturato con alcuni suoi compagni dagli Indios, dovrà assistere alla loro uccisione, dovrà vedere con orrore le loro carni diventare cibo per questi antropofagi. Lui si salverà perché diverso per il suo viso sfigurato dal fuoco e dall’incontro con i selvaggi cambierà la vita e il destino del giovane veneziano; poco a poco si avvicinerà a questi indios, ne assorbirà le usanze, i suoni e gli odori, cedendo loro in cambio un po’ della sua civiltà. Diventerà l’uomo dei due mondi che cercherà in ogni modo di conciliare, in un’ottica di reciproca integrazione. Alla Città dell’oro non arriverà mai e così anche Caboto, ma l’Eldorado non è lì, è in quel villaggio dove è nata una nuova civiltà.
Verde Eldorado è indubbiamente un romanzo ambizioso, ma riesce a raggiungere in buona parte i suoi scopi; il lettore deve solo stare attento a non lasciarsi trascinare dalla trama avventurosa, a cui può pur tuttavia lasciarsi andare, ma con giudizio; infatti è opportuno fermarsi ogni tanto per riflettere sulla grandiosa opportunità di un mondo nuovo che ci offrono Ugolino e il suo creatore Adrian Bravi.
Le origini del potere - Alessandra Selmi
Papa Giulio II (Albisola, 5 dicembre 1443 – Roma, 21 febbraio 1513), al secolo Giuliano della Rovere, è anche conosciuto come il Papa guerriero, perché, nel periodo del suo pontificato, che va dal 1503 al 1513, promosse numerose guerre per liberarsi dei vari poteri che prevaricavano la sua autorità temporale, e lo fece con la massima determinazione e con il coraggio propri più di un uomo d’armi che di un religioso al comando della Chiesa.
Però avviso che chi si dispone a leggere questo romanzo storico che riguarda appunto Giulio II potrebbe non dico restare deluso, ma arrivato alla fine potrebbe chiedersi notizie sul suo pontificato, perché in queste 384 pagine si parla solo del prima, cioè del periodo che va dal 1471, anno in cui fu eletto al trono di Pietro con il nome di Sisto IV lo zio Francesco della Rovere. E’ pertanto molto indovinato il titolo dell’opera, perché le origini del potere sono quelle degli anni in cui Giuliano della Rovere brigò per diventare il capo della Chiesa. Per quanto si tratti di un romanzo storico l’autrice si è attenuta sempre a fatti veritieri, eventi che sono la testimonianza di un mondo in cui la spiritualità era decisamente messa da parte e nella lotta che vediamo, aspra, con delitti anche, fra Giuliano della Rovere e Rodrigo Borgia c’è tutto un periodo storico che ha caratterizzato l’Italia nella seconda metà del XV secolo, con sullo sfondo altre figure che non sono proprio comparse, come Lorenzo de’ Medici e gli Sforza, in un grande e riuscito affresco che nobilita un lavoro ben strutturato, che non ha mai un momento di cedimento e che avvince dall’inizio alla fine. Fra l’altro c’è tutto ciò che può piacere al lettore, dalla figura carismatica del fraticello Giuliano che arriva a Roma a piedi per assistere all’incoronazione dello zio, che subito mette in pratica il nepotismo nominandolo cardinale insieme ai cugini Pietro e Girolamo Riario, alla sua lunga storia d’amore con Lucrezia Normanni, da cui avrà una figlia, un amore per niente platonico, ma molto carnale. E poi c’è la descrizione della Roma dell’epoca, della guerra fra le famiglie Orsini e Colonna, della miseria diffusa fra i suoi abitanti, dalla morte che, sotto forma di pestilenza, livella tutti. Non manca anche un’analisi psicologica approfondita, a cui non sfugge nessuno dei principali protagonisti, insomma Le origini del potere è un’opera senz’altro riuscita e ci si augura che sia la prima parte, visto che il sottotitolo è La saga di Giulio II, il papa guerriero, e considerato che che appunto il libro finisce con la notizia che quella mattina nel conclave, al primo scrutinio, viene eletto pontefice Giuliano della Rovere, che poi scelse di chiamarsi Giulio II. Era stata una lunga attesa, piena di intrighi, con altri papi prima di lui, ma alla fine tanto aveva brigato che c’era riuscito. Come ogni buona saga sarebbe logico un seguito con un libro sul suo pontificato, che durò dal 1503 al 1513. Tuttavia, non posso esimermi dall’evidenziare la particolare bellezza delle ultime pagine, allorché a fronte del tradimento di un suo compaesano che aveva avviato alla carriera religiosa, pronto a punirlo nel modo più atroce, Giuliano, sentite le motivazioni che tanto gli ricordavano i patimenti e gli affronti subiti da lui stesso in convento, ha un crollo momentaneo, lui che è sempre inflessibile scopre di possedere anche il senso di colpa, tanto da indurlo piangendo a chiedere perdono, graziando altresì quella vittima che era pronta a espiare la sua colpa.
Da leggere, lo merita.